La ricerca del Santo Graal, il calice di Cristo

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Sacro contenitore, mistico oggetto delle fede, ma anche pietra magica, tesoro di conoscenza, cuore dell’uomo: cosa sia il Santo Graal nessuno può saperlo. Esso sfugge all’intelletto, come solo il mistero sfugge. Molti sono coloro che ne hanno intrapreso la ricerca, sempre seguendo tracce labili, inafferrabili come l’incanto d’una leggenda al limitare del crepuscolo. Il Graal appartiene a una dimensione di confine tra il conoscibile e l’arcano, tra la materia e l’idea. Al pari di uno specchio, esso è mito che riflette la realtà, e in quanto racconto l’abbellisce, la distorce sì che divenga all’uomo inaccessibile. “La ricerca del Santo Graal è la ricerca dei segreti di Dio, inconoscibili senza la grazia”, scrisse Étienne Gilson1, esprimendone così l’essenza trascendente.

La letteratura del Santo Graal

Non può esservi Graal, dunque, senza ricerca interiore, senza una domanda rivelatrice che disveli la via della rettitudine. È così per il Perceval di Chrétien de Troyes2, antieroe inconsapevole che giunge alla corte del Re Pescatore, sovrano malato e con il regno in rovina. Ivi, il giovane cavaliere assiste a una scena misteriosa: un valletto trasporta una lancia sanguinante, ma soprattutto un “graal antre ses deus mains une dameisele tenoit“. Un graal tra le sue due mani una damigella teneva, e Perceval non poteva sapere che la guarigione del re fosse legata a quell’oggetto. Soltanto colui che, con cuore puro, avesse domandato la funzione della coppa lo avrebbe liberato dal male che l’affliggeva. Ma Perceval sceglie invece il silenzio dettato dalla cortesia, e così condanna per sempre il Re Pescatore alla sua infermità.

“Il giovane le vide passare, ma non osò chiedere a chi venisse servito il Graal, perché ancora aveva nel cuore le parole del saggio signor di Gorneman, credendo di avere danno – io spesso ho sentito dire che si può sbagliare nel troppo parlare, ma anche nel troppo tacere – così bene o male che per lui fosse non chiese nulla”.

Chrétien de Troyes, Il racconto del Graal, traduzione a cura di Davide Grassi

Il Perceval di Chrétien de Troyes

Le Roman de Perceval ou le conte du Graal del francese Chrétien de Troyes, redatto tra il 1175-1190 per Filippo d’Alsazia conte di Fiandra, e rimasto incompiuto, è la prima attestazione letteraria del Graal. Il racconto godrà di enorme fortuna negli anni a venire: il tema sarà ripreso da numerosi autori che tenteranno di completarlo; si contano almeno quattro continuazioni apocrife. Il Graal di cui narra Chrétien de Troyes è tuttavia ancora mancante degli attributi storici che gli saranno in seguito conferiti. L’autore riferisce, infatti, di un graal, cioè di un generico recipiente di forma piatta. Si evince, tale fatto, dall’etimologia stessa del termine francese, che poggia le basi sul latino medievale gradalis3.

Certo, si tratta pur sempre di una coppa che “sprigionava una luce così forte che le candele perdevano la loro luminosità, come le stelle quando si leva il sole o la luna” e la quale “era di oro fino e di smeraldo, aveva pietre preziose di varia qualità, delle più ricche e delle più care che ci possano essere nel mare e nella terra”4. Il Graal del Perceval è già associato a un potere divino, e nel corso del racconto si scopre che esso contenga un’ostia sacra, unico sostentamento materiale del padre del Re Pescatore.

“E non pensiate che vi portino lucci o lamprede o salmoni; con una sola ostia che gli portano in quel Graal lo sappiamo, sostiene e conforta la sua vita, tanto il Graal è santa cosa”.

Chrétien de Troyes, Il racconto del Graal, traduzione a cura di Mariantonia Liborio. In: Il Graal. I testi che hanno fondato la leggenda, Milano, Mondadori, 2005.

La sainte chose

In Chrétien de Troyes la sainte chose è perciò il contenuto del Graal, e non il recipiente, che corrisponde a un oggetto d’uso quotidiano. Ma il misterioso gradale è lì per una ragione: deve suscitare curiosità in Perceval affinché, attraverso la domanda, egli possa crescere come uomo. Il messaggio che Chrétien de Troyes vuole lasciare ai posteri è sociale, antropologico. L’infermità del Re Pescatore è la metafora che esprime il male del suo tempo, ossia la vacuità dei valori cavallereschi fini a se stessi, delle azioni umane condotte senza la Grazia divina. Perceval è infatti muto giacché schiavo del peccato. Egli deve superare numerose prove, subisce una maturazione personale che lo aiuta a comprendere i valori della ragione, dell’amor cortese e la lealtà in battaglia, ma soprattutto a ricevere la rivelazione cristiana. L’eroe è chiamato ad abbandonare i vizi della cavalleria terrena per abbracciare i santi principii della cavalleria celeste.

Le origini celtiche del mito

Chrétien de Troyes sembra attingere da antiche reminiscenze della mitologia celtica5 e, in particolar modo, da quella particolare materia di Bretagna che si era diffusa nei decenni precedenti. Goffredo di Monmouth, nella sua Historia Regum Britanniae, aveva già legittimato l’ascendenza mitica del Regno bretone: Artù è il leggendario eroe celtico che doma i Sassoni alla caduta di Roma. Tralasciando le interpretazioni politiche che sottendono l’opera – Goffredo scrive alla corte dei Plantageneti – si scorge qui una continuità narrativa della corposa tradizione preesistente.

Il Calderone di Dagda e la Lancia di Lúg erano alcuni dei tesori che, si credeva, i leggendari antenati Túatha Dé Danann portarono seco in Irlanda quando colonizzarono questa terra6. La pentola del dio celtico in particolare, possedeva già in potenza gli attributi che saranno propri del Graal, quale dispensatrice di abbondanza, conoscenza e finanche resurrezione ai morti in battaglia7. La lancia magica, invece, non cessava mai di sanguinare: è quanto veduto da Perceval nel castello del Re Pescatore.

Nei racconti irlandesi, infine, i Túatha Dé Danann possedevano altri due tesori, ch’erano chiamati Spada di Luce e Pietra del Destino8; ispireranno, tali magici oggetti, le opere successive della letteratura del Graal. Il simbolo della prima ricorrerà, in particolare, in tutto il ciclo arturiano: nel Merlino di Robert de Boron (inizio XIII secolo) il giovane Artù diviene re allorché estrae una spada dalla roccia9.

Il Parzival di von Eschenbach e il lapis exillis

Di pochi decenni successivo all’opera di Chrétien de Troyes è il Parzival di Wolfram von Eschenbach (1200-1205). L’autore tedesco attinge dai racconti cavallereschi dell’epoca, ma rielaborandoli in maniera critica. Come si può intuire, l’opera di von Eschenbach, primo vero bildungsroman della letteratura tedesca, si ispira anche al Perceval di Chrétien de Troyes. Ne ricalca alcuni passi, pur con spunti narrativi nuovi e, allo stesso tempo, vuole prenderne le distanze, forse per rivendicare l’originalità del suo scritto:

“Maestro Chrétieen de Troyes ha raccontato questa storia, ma alterandola; e Kyot, che ci trasmise il racconto veridico, a buon diritto se ne adonta. […] Dalla Provenza questo racconto è giunto, nella sua autentica forma, in terra tedesca; ci fa conoscere l’evolversi dell’avventura. Quanto a me, Wolfram von Eschenbach, non voglio riportar niente di più di ciò che il maestro provenzale ci ha narrato”.

Wolfram von Eschenbach, Parzival, traduzione a cura di Francesco Zambon. In: Il Graal. I testi che hanno fondato la leggenda, Milano, Mondadori, 2005.

Non entreremo nel merito delle differenze tra gli scritti dei due autori, ma ci limiteremo ad affrontare quanto concerne il Graal. In von Eschenbach esso non è un piatto, ma una pietra dai poteri miracolosi10, il lapsit exillis. Tanto si è discusso su questo termine, che dai più viene fatto derivare dal latino lapis ex coelis. Gioiello caduto dal cielo, dunque, durante il combattimento tra Lucifero e le schiere celesti dell’arcangelo Michele.

“Gli angeli nobili e buoni che non presero partito né per l’uno né per l’altra, quando Lucifero e la Trinità vennero tra loro a contesa, dovettero scendere giù sulla terra e restare a custodia di questa pietra”.

Wolfram von Eschenbach, Parzival, traduzione di G. Bianchessi, in I grandi scrittori stranieri, Utet, Torino, 1957

I templari di von Eschenbach

Anche il Graal di von Eschenbach non ha attributi cristologici e, in verità, nemmeno mistici. Esso è un mero oggetto che ha la funzione di elargire il nutrimento necessario a chi lo possiede, assicurando la giovinezza eterna. L’elemento spirituale, come in Chrétien de Troyes, è conferito per intervento divino, non è intrinseco del Graal. Si legge così che una colomba il venerdì santo vi posava sopra un’ostia consacrata. I custodi della pietra sacra sono definiti “templari”, nome evocativo del famoso Ordine cavalleresco di Gerusalemme, ma l’associazione è lungi dall’essere dimostrata. È possibile che von Eschenbach volesse semplicemente attribuire a tali Cavalieri la custodia del tempio del Graal, cioè il castello di Munsalwaesche11. Era questa la dimora del Re Pescatore Anfortas, il cui nome volutamente ricorda il francese antico enferté, ossia infermità.

“A Munsalwaesche, presso il Gral, sta una schiera armata di cavalieri; questi templari sono soliti fare molte sortite a cavallo, per avventura […] essi vivono d’una pietra, e questa è d’una sorta purissima. Se nulla ne sapete, ecco, vi dico io il nome: si chiama lapsit exillis. […] La pietra è anche chiamata col nome di Gral”. […] Oggi è il Venerdì Santo, il giorno in cui infallantemente s’aspetta che una colomba si stacchi a volo dal cielo; e questa reca una piccola ostia bianca e la lascia sopra la pietra”.

Wolfram von Eschenbach, Parzival, traduzione di G. Bianchessi, in I grandi scrittori stranieri, Utet, Torino, 1957

La domanda salvifica

Von Eschenbach porta a termine la vicenda del Parzifal, a differenza di quanto accade nell’incompiuta opera di Chrétien de Troyes. Ecco che un saggio eremita, impersonato qui dallo zio Trevrizent, disvela al cavaliere gli errori commessi, primo fra tutti il silenzio. Come nel romanzo francese, il Re Pescatore può guarire dalla sua infermità al solo udire la domanda sul Graal, ma Parzifal preferisce tacere, si limita ad osservare quella strana processione in cui una fanciulla, Repanse de Schoie (“pensiero di felicità”), regge il lapsit exillis. Egli deve quindi rimediare alla nefasta mancanza: messosi alla ricerca del Graal e giunto di nuovo al cospetto di Anfortas, finalmente pone al Re la domanda salvifica “zio, cosa ti affligge?”, così divenendo egli stesso l’erede al trono.

Robert de Boron e il calice di Cristo

Il Graal come oggi lo immaginiamo, ovvero come il calice che Cristo usò durante l’Ultima Cena, è frutto dell’opera di Robert de Boron, e in particolare di quanto narrato nella sua trilogia Le livre du Graal (1191-1212)12. Nella prima parte del racconto, il Joseph d’Arimathie, Robert de Boron rivela che la reliquia corrisponde al vaso utilizzato da Cristo, a casa di Simone, durante l’Ultima Cena.

Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: «Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati. Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio” 

Matteo 26, 27-29

Il Joseph d’Arimathie

L’autore introduce nel ciclo letterario la figura di Giuseppe d’Arimatea, di certo sulla base di un testo apocrifo del II secolo, noto come Vangelo di Nicodemo. Giuseppe è nei vangeli canonici un membro del sinedrio di Gerusalemme, ma soprattutto è colui che depone Cristo dalla Croce. Ebbene, secondo il racconto di De Boron, quegli si fece consegnare da Pilato il sacro vaso, e vi raccolse il sangue del Figlio di Dio che Longino aveva fatto sgorgare con la sua lancia. Giuseppe d’Arimatea diviene pertanto il primo custode del Graal, ed è Gesù stesso che in visione glielo conferma:

“Sarai tu a custodirlo e, dopo di te, colui al quale lo affiderai. Sarai un buon custode, Giuseppe, ma dovrai affidarlo soltanto a tre persone, che lo riceveranno in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo;”.

Robert de Boron, Le livre du Graal, traduzione a cura di Francesco Zambon. In: Il Graal. I testi che hanno fondato la leggenda, Milano, Mondadori, 2005.

Il Graal come reliquia cristiana

Robert de Boron, in tal modo, getta le fondamenta di quel fortunato topos letterario che è giunto sino ai nostri giorni. Il Graal diviene la reliquia per eccellenza, sacro cimelio dal valore inestimabile che racchiude in sé l’essenza stessa del Cristianesimo. Il calice, infatti, è segno eucaristico, è lo strumento con il quale Cristo, la sera del Giovedì santo, aveva annunciato il mistero della redenzione.

“Non voglio nascondervelo chi vorrà dargli il suo vero nome lo chiamerà con ragione Graal, perché nessuno, credo, vedrà il Graal senza che esso gli aggradi; piace ed è gradito a tutti gli abitanti di questo paese. Coloro i quali possono stargli vicino e godere della sua presenza provano delizia nel vederlo; provano la stessa felicità di un pesce che dopo essere stato afferrato
da qualcuno, riesce a sfuggire dalla mano e a rituffarsi nell’acqua profonda”.

Robert de Boron, Le livre du Graal, traduzione a cura di Francesco Zambon. In: Il Graal. I testi che hanno fondato la leggenda, Milano, Mondadori, 2005.

Per questo Giuseppe d’Arimatea deve officiare ogni giorno il servizio del Graal, una rappresentazione dell’Ultima Cena.

Il Merlin e il Perceval

Le Livre du Graal di Robert de Boron prosegue con il Merlin e quindi con il Perceval. Qui ritroviamo molti elementi che saranno propri del ciclo letterario di Bretagna. Così, Merlino ha il compito di tramandare le vicende del Graal ai posteri e ai re; è lui che istituisce la Tavola Rotonda per i cavalieri più valorosi, ma un posto deve rimanere vacante: esso corrisponde a quello occupato da Giuda all’Ultima Cena, e sul quale incombe una terribile maledizione. Ciò nondimeno Artù, ch’era divenuto re dopo aver estratto la spada dalla roccia, consente a Perceval di sedersi sul posto vacante. In quel momento un urlo agghiacciante si leva tra i cavalieri e la pietra della Tavola Rotonda si spacca: il regno di Artù non avrà più pace finché Perceval non avrà trovato il Graal e guarito il Re Pescatore suo custode!

“Quando si sarà innalzato sopra tutti gli altri e sarà stato riconosciuto come il miglior cavaliere del mondo, Dio lo condurrà alla dimora del ricco Re pescatore. E quando avrà domandato a cosa serve il Graal e chi viene servito con esso, allora il Re Pescatore guarirà, la
pietra della Tavola Rotonda si salderà e si dissolveranno gli incantesimi che gravano attualmente sulla terra di Bretagna”.

Robert de Boron, Le livre du Graal, traduzione a cura di Francesco Zambon. In: Il Graal. I testi che hanno fondato la leggenda, Milano, Mondadori, 2005.

La Queste del Graal: il ciclo bretone

Con l’opera di Robert de Boron la realtà e il mito si fondono: se il Graal era davvero il sacro contenitore dell’Ultima Cena, se aveva ricevuto il sangue del figlio di Dio, allora doveva certo possedere eccezionali poteri, e chiunque l’avesse trovato avrebbe avuto in dono la vita eterna…

Il Graal trascende, pertanto, da mero oggetto a metafora escatologica, esso si trasforma nell’immagine della grazia divina che redime l’umanità. La salvezza dell’anima, tuttavia, è un dono che spetta all’uomo meritevole: soltanto chi persegue la virtù può raggiungere la vita eterna. A partire dal XIII secolo si sviluppa un ampio filone di racconti incentrati sulla ricerca del Graal. Tale è la Queste del cavaliere valoroso, incarnazione dell’eroe medievale che nel cercare il sacro calice è chiamato a trovare innanzitutto se stesso.

I romanzi francesi del Lancillotto in prosa, e del ciclo arturiano nella sua totalità, esprimono a pieno quest’ordine morale, che trova riscontro negli ambienti monastici cluniacensi e cistercensi dell’epoca. Il fiorire delle molteplici narrazioni fantastiche è espressione di un sentire religioso dirompente, che eleva lo spirito dell’uomo attraverso il compimento di una missio: Artù estrae la spada dalla roccia, Lancillotto libera Ginevra dalla prigione del castello di Meleagant, i Cavalieri della Tavola Rotonda intraprendono la Queste del Saint Graal. È sulla base di questo substrato, per mezzo di una rielaborazione di tutti i precedenti testi, che l’inglese Thomas Malory scriverà infine La morte di Artù (1485 circa), forse il romanzo che più ha contribuito a imprimere nell’immaginario collettivo le vicende del Graal.

La ricerca storica del Graal

Sulla base dell’ampio filone letterario sviluppatosi a partire dal XIII secolo, il quale identificava il Santo Graal con il calice di Cristo, la Queste è trasposta parimenti sul piano del reale. Se la reliquia, infatti, corrisponde a un oggetto esistito davvero, perché non tentare di ritrovarlo? Questa, in buona sostanza, è l’idea che ha animato la ricerca storica del Graal. Certo, è facile intuire quanto labili possano essere le tracce di una reliquia che risale a duemila anni fa, soprattutto in campo storiografico e archeologico. Cosicché sussistono molte piste, indagini parallele, tutte in qualche modo verosimili: se ciascuno di coloro che cercano il Graal dicesse il vero, avremmo non uno ma centinaia di Graal.

Il Santo Graal a Gerusalemme

In accordo con i Vangeli canonici, redatti nella seconda metà del I secolo, quando Cristo fu crocifisso il Graal si trovava a Gerusalemme, città santa in cui si era svolta l’Ultima Cena con gli apostoli. Una ricerca del Santo calice che vuol definirsi storica dovrebbe logicamente iniziare da qui, ma di tale manufatto non si ha menzione alcuna se non in una fonte del VII secolo13. In una cronaca del pellegrino Arculfo, che si recava a Gerusalemme dalle Isole britanniche, si afferma che:

Tra la basilica del Golgota e il luogo del Martirio, si trova una cappella in cui è custodito il calice del Signore, che egli benedisse con le proprie mani e diede agli Apostoli quando sedeva alla cena il giorno precedente il suo supplizio. Il calice è d’argento, ha la dimensione di una pinta gallica e ha due maniglie lavorate su ciascun lato… Dopo la Resurrezione, il Signore bevve da questo stesso calice, secondo quando indicato alla cena con gli apostoli. Il santo Arculfo lo vide e attraverso un’apertura del reliquiario dove era riposto, egli lo toccò con mano propria.

Richard Barber, “Graal”, Piemme, 2004;

A ben vedere si tratta di un indizio storico molto labile: la testimonianza di Arculfo è molto successiva agli eventi della Passione di Cristo, e non abbiamo altre prove per accertare che il calice veduto dal vescovo fosse davvero quello originale. Di tale reliquia non si fa menzione neppure in seguito, fatto quanto meno sospetto. Inoltre, se davvero il Graal fosse stato d’argento, come descritto nel racconto, certamente ne avremmo trovato riscontro nella letteratura e nei romanzi cavallereschi succitati.

Il Sacro Catino di Genova

Invece, è interessante notare la scelta, tanto di Chrétien de Troyes quanto di autori successivi, di descrivere un Graal composto di gioielli, e in particolar modo di smeraldo. Doveva esservi certo una tradizione orale che legava la sacra reliquia a tale gemma, e forse anche un fondamento storico. Guglielmo di Tiro racconta del ritrovamento di un prezioso vaso color smeraldo (“vas coloris viridissimi, in modum parapsidis formatum“) da parte delle truppe Genovesi di Guglielmo Embriaco durante l’assedio di Cesarea del 110114. Per l’arcivescovo di Toledo Rodrigo Jiménez de Rada esso proveniva invece da Almeria, conquistata dai Genovesi nel 114715. Si tratta di quel Sacro Catino che oggi è preservato presso il Museo del Tesoro della cattedrale di San Lorenzo a Genova.

Il manufatto ha la forma di una coppa esagonale molto schiacciata, tanto da poter rassomigliare a una pietra, come il lapsit exillis. E soprattutto, davvero si è creduto per secoli che fosse il Graal originale, ipotesi suggerita da Jacopo da Varagine nella Cronaca di Genova16, non senza trascendere nel mito. Oggi sappiamo che non è così: il Sacro Catino fu prelevato dalle truppe napoleoniche in seguito all’annessione di Genova del 1805 e condotto a Parigi; quando nel 1816 fu restituito alla città, disgraziatamente rotto in più frammenti, rivelava che fosse costituto di pasta vitrea. L’ipotesi oggi ritenuta più plausibile è che esso sia un manufatto del X-XII secolo, realizzato da artigiani di area fatimida17.

Il Santo Cáliz di Valencia

Un altro candidato al Graal, che vanta ad onor del vero maggiori pretese di autenticità, è il cosiddetto calice di Valencia. Presso la Cattedrale della città spagnola, in un’apposita cappella dedicata, è conservato un manufatto prezioso. Esso consta di una coppa levigata di agata rossa, realizzata in ambito egiziano o palestinese verosimilmente tra il II secolo a.C. e il I secolo d.C.18 e di integrazioni successive. Queste ultime comprendono un basamento a piatto rovesciato in calcedonio, di maestranze arabe del X-XI secolo; un fusto d’oro esagonale, con nodo e anse laterali, aggiunto nel Medioevo, così come i rubini, gli smeraldi e le perle che lo adornano.

Il calice di San Lorenzo

Secondo la tradizione, il calice di Valencia fu condotto a Roma da San Pietro; durante le persecuzioni di Valeriano poi, con esattezza nel 258, papa Sisto II lo affidò a San Lorenzo per preservarlo dalla distruzione20. Di certo, la leggenda interpreta le fonti agiografiche sulla vita del Santo, tra cui il noto De officiis ministrorum di Ambrogio, che ne attesta effettivamente data e luogo del martirio21. Ciò che invece concerne il Graal è puro racconto, si tramanda che San Lorenzo inviò il calice a Huesca, sua città natale, prima di essere martirizzato.

La leggenda afferma che il manufatto fu in seguito custodito nei Pirenei dal 713 per volontà del vescovo Acisclo, allorché i musulmani prendevano possesso della Penisola iberica, e nuovamente ricondotto a Huesca. Ora, un documento ne attesta la presenza presso il monastero di San Joan de la Peña nell’XI-XII secolo22. Nel 1399 il Santo Cáliz appare tra i beni del re di Aragona Martino I, come testimoniato da un atto del palazzo reale di Barcellona23. Infine, fu Alfonso il Magnanimo24 a condurre a Valencia la reliquia, che dal 1437 è custodita nella Cattedrale.

Secondo un altro ramo della stessa leggenda, il manufatto tornò a Roma qualche tempo dopo il martirio di San Lorenzo. Per Alfredo Barbagallo il Graal fu nascosto nelle catacombe di Ciriaca, collocate sotto la Basilica di San Lorenzo al Verano, ossia sul luogo della sepoltura del Santo25.

Il Santo Graal in Gran Bretagna

Corrisponde a un topos medioevale la tradizione che vede in Giuseppe d’Arimatea il primo a evangelizzare la Gran Bretagna, portando seco il Santo Graal. Essa originò da un espediente narrativo che i monaci di Glastonbury idearono per conferire prestigio all’Abbazia del luogo. Le vicende di Giuseppe d’Arimatea in Bretagna si diffusero, pertanto, non prima del XII-XIII secolo, attraverso alcune interpolazioni del De Antiquitate Glastonie Ecclesie di Guglielmo di Malmesbury (1129-1139)26, e in maniera altrettanto mitica venne strumentalizzata la figura di Artù.

Nel 1184 l’Abbazia di Glastonbury subì un grave incendio e dalla conseguente crisi economica i religiosi si risollevarono grazie a un – presunto – evento provvidenziale: il ritrovamento della tomba del sovrano e della moglie Ginevra presso il monastero garantì un enorme afflusso di pellegrini, lasciando intendere che qui si celasse la famosa Avalon della letteratura27. Perché non sfruttare la popolarità, infatti, di quanto era stato narrato sin dalle fonti più antiche del VI secolo, come il De excidio et conquestu Britannniae di Gildas il Saggio? Nel XII secolo Artù apparteneva già saldamente all’epos britannico: le sue gesta erano state cantate nell’Historia Brittonum di Nennio (IX secolo), negli Annales Cambriae (X secolo) e infine nella nota Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth (1135-1137).

Questo corpus narrativo troverà coronamento infine nell’opera di Robert de Boron, come visto: è il Graal l’elemento divino che guida la storia della Bretagna da Giuseppe d’Arimatea a Re Artù.

Giuseppe d’Arimatea possedeva davvero il Graal?

Ancora, tanto radicata nell’immaginario è la vicenda di Giuseppe d’Arimatea in Gran Bretagna che persino Cesare Baronio ne riporta alcuni tratti negli Annales Ecclesiastici, opera magna della storia della Chiesa composta a cavallo del secoli XVI e XVII. Baronio fornisce precisi riferimenti temporali e geografici. Egli afferma che Giuseppe, diretto verso l’Inghilterra dove intendeva predicare il Vangelo, si fermò a Marsiglia nel 35 d.C.

Ora, bisogna specificare che nessuna fonte, eccetto de Boron, e ancor meno quella biblica, riferisce espressamente che il sacro calice fu consegnato a Giuseppe d’Arimatea. I Vangeli canonici si limitano ad affermare che l’uomo ricevette il corpo del Cristo:

Sopraggiunta ormai la sera, poiché era la Parascève, cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d’Arimatèa, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anche lui il regno di Dio, andò coraggiosamente da Pilato per chiedere il corpo di Gesù

Mc 15,42-43

Pertanto, se anche Giuseppe d’Arimatea visse davvero in Gran Bretagna, come vuole il mito agiografico, non è detto che il Graal storico vi sia mai giunto.

I luoghi del Graal

A partire dalle stesse premesse, attraverso la figura pellegrina di Giuseppe d’Arimatea o gli immancabili Templari, la ricerca storica del Graal ha assunto col tempo una dimensione locale: sono tantissimi i luoghi che ne rivendicano, ovviamente, il solo nascondiglio. Il sacro calice, infatti, non si trova mai, e pertanto ogni paese, città o regione è suo plausibile custode.

Ad Aquileia

Lo troviamo così sepolto da qualche parte ad Aquileia, insieme all’introvabile tesoro del Patriarcato. Sì narra che al sopraggiungere delle orde di Alarico nel 40128, le ingenti ricchezze della chiesa locale furono celate, e da allora mai più ritrovate. Tra di esse vi sarebbe il Graal, ivi condotto da Giuseppe d’Arimatea, in viaggio per fuggire alla persecuzioni dei protocristiani in Terra Santa.

Nella soffitta di un’abitazione privata a Rugby, in Inghilterra

L’inglese Graham Phillips sostiene di aver ritrovato il Santo Graal all’interno di una soffitta a Rugby, basandosi sulla ricostruzione di alberi genealogici29. La proprietaria del vano Victoria Palmer, secondo l’autore dello studio, discende da una famiglia di re Gallesi, i Powys, che avrebbero ricevuto in dono il Graal nel 1100. Questo sarebbe stato rinvenuto all’interno del sepolcro di Gesù da Elena, la madre dell’Imperatore Costantino.

A Castel del Monte

Un altro possibile nascondiglio del Graal è rappresentato da Castel del Monte ad Andria. L’edificio fu voluto da Federico II di Svevia, il quale sarebbe entrato in possesso del calice durante il periodo di dominio cristiano a Gerusalemme. Federico II avrebbe nascosto il Graal proprio all’interno di Castel del Monte, la cui forma ottagonale ricorda quella di un gradale cristiano.

Presso la Basilica di Collemaggio all’Aquila

Di Celestino V tante cose si narrano: si sa che egli fu eremita poverissimo, ma che riuscì a far edificare una basilica imponente presso Collemaggio all’Aquila; divenne poi papa per un brevissimo periodo, dall’aprile del 1292 al dicembre del 1294, quando decise di rinunciare al soglio pontificio per ritrovare la tranquillità perduta; e altre dicerie misteriose, come i suoi rapporti con l’ordine dei Templari30. È possibile che Celestino conobbe il Gran Maestro Guillaime de Beaujeu durante il Concilio II di Lione, dove si era recato per chiedere a papa Gregorio X l’approvazione della sua congregazione. Una leggenda asserisce che i Cavalieri Templari abbiano finanziato la costruzione di Collemaggio in cambio della custodia, presso tale Basilica, di una straordinaria reliquia proveniente da Gerusalemme…

Nell’Eremo di Montesiepi in Toscana

L’Inquisitio in partibus, contenente gli atti del processo di canonizzazione del 118531, narra la vita di Galgano Guidotti, un cavaliere di nobili origini nato a Chiusdino tra il 1148 e il 1150. Ebbene, Galgano si convertì in seguito a una visione mistica e, con gesto risoluto, piantò la sua spada in una roccia: si tratta della reliquia ancor oggi preservata presso presso l’Eremo di Montesiepi a Chiusdino.

E sguainata la spada, non essendo in grado di fare una croce dal legno, piantò subito la stessa spada in terra, come croce. Ed essa, per virtù divina, si saldò in modo tale che né lui né altri, con qualunque sforzo, fino ad ora poterono mai estrarre.

Inquisitio in partibus, 1185

Vi sono alcune somiglianze tra l’agiografia e la materia di Bretagna, primo fra tutti il gesto evocativo di Galgano, Artù rovesciato, che anziché estrarre la spada dalla roccia, ve la conficca. Da qui l’idea che il Santo Graal si trovi a Chiusdino, luogo in cui è altresì attestata la presenza dei Cavalieri Templari.

Nella Basilica di San Nicola a Bari

Il 9 maggio 1087 le spoglie di San Nicola, vescovo di Myra, fecero il loro ingresso a Bari, trasportate da un nutrito gruppo di marinai. I resti del Santo erano stati prelevati attraverso una missione segreta in Asia minore, il cui mandante era papa Gregorio VII, che negli anni seguenti ordinò la costruzione della famosa Basilica cittadina. Secondo una tradizione popolare, i marinai di Bari trovarono a Myra anche un calice prezioso, identificato con il Santo Graal.

Esso sarebbe conservato nella Basilica di San Nicola, come suggerito da alcuni indizi: una riproduzione della Lancia di Longino; gli elementi scultorei della Porta dei Leoni, dove sono rappresentati i Cavalieri della Tavola Rotonda di Re Artù; una misteriosa scritta in latino incisa su un altare del transetto destro, che ancora nessuno è riuscito a decifrare. Di quest’ultima è stata fornita un’interpretazione da Vincenzo dell’Aere32 in relazione alla presenza del Graal: “La cassa e lo scrigno provenienti dalla cripta di Mira ed il gradale proveniente dal sacello dell’Eterno di Galgano sono qui nascosti” [Arca testa tecta a cripta in Mira et gradale a sacel(lo) in Galva(ni) sepulcr(o)]. C’è da dire che esiste un’analogia tra la figura di San Nicola, dispensatore di doni e cure, e il Graal della letteratura medioevale.   

Il Santo Graal e i Templari

Un altro filone di ricerca, a metà tra la realtà e il mito, afferma che il Santo Graal venne ritrovato dai Cavalieri Templari a Gerusalemme e quindi trasportato in Francia. Tuttavia, al momento dello scioglimento dell’Ordine (1312-1314), esso fu riposto in un luogo sicuro per evitare che cadesse nelle mani di Filippo il Bello. D’altronde, è probabile che un nutrito gruppo di Templari riuscì a fuggire oltremanica durante le persecuzioni del re di Francia, come concesso da Clemente V all’indomani del processo di Chinon33. Secondo alcuni studiosi il Santo Graal sarebbe stato dunque trasportato in Scozia, all’interno della cappella di Rosslyn di William Sinclair34, famosa per le due colonne dette “del maestro” e “dell’apprendista”.

Un’altra leggenda legata ai Cavalieri Templari vuole che il calice si trovi dentro un impenetrabile pozzo (“money pit”) sull’isola di Oak, nella Nuova Scozia35. Il principe Henry Sinclair avrebbe commissionato una flotta ai Templari sopravvissuti alla persecuzione di Filippo il Bello. Essi, sotto il comando di Antonio Zeno, avrebbero raggiunto l’America… un secolo prima di Cristoforo Colombo. Ciò spiegherebbe il perché la Croce Patente si trovasse sulle vele delle caravelle Niña, Pinta e Santa Maria, come indica una xilografia illustrativa del 1493 che accompagna la lettera del navigatore genovese detta De insulis in mari Indico nuper inventis.

Alcune interpretazioni moderne del Graal

In parallelo alla ricerca storica, si è sviluppata nel tempo una critica interpretativa differente sul reale significato del Santo Graal. Secondo alcuni autori, non è detto che esso corrisponda a un oggetto materiale, ma potrebbe essere piuttosto una metafora, un significante misterioso che sottende a un’idea o a una conoscenza esoterica.

Si può rintracciare la genesi del mito moderno ed esoterico del Graal nell’opera di Richard Wagner (1813-1883), e in particolare nel suo Parsifal (1882). Il musicista ebbe il merito di riportare in voga quei romanzi cavallereschi che, in verità, erano stati in auge nel Medioevo soltanto per mezzo secolo, dal Perceval di Chrétien de Troyes (1175-1190) fino agli ultimi romanzi della Queste (1230), ed erano stati rielaborati dal solo Thomas Malory nel XV secolo. Allo stesso tempo Wagner caricò i racconti di un fascino moderno, mescolando con sapienza differenti simbolismi, sensibilità e spiritualità, fattore che gli permise di riscuotere un enorme successo. Da quel momento il mito del Graal si andò arricchendo di attributi nuovi e, per usare un’espressione profondissima del Parsifal wagneriano, si cercò il luogo della sua custodia laddove “lo spazio diventa il tempo”.

Il Graal e i Catari

Il legame tra il Graal e la dottrina dei Catari è stato proposto negli ambienti occultisti del Novecento, in particolar modo da Otto Rahn nella sua Crociata contro il Graal36. I Catari, detti in Francia anche Albigesi, non credevano nella resurrezione; il loro insegnamento era basato su un dualismo che riconosceva in Dio il signore delle cose spirituali e in Lucifero il creatore del mondo materiale. Furono quindi accusati di eresia e nel 1165 scomunicati dalla Chiesa giacché dichiarati impenitenti. Né valsero i tentativi di evangelizzazione di San Bernardo di Chiaravalle in Linguadoca: allorché fu assassinato il legato pontificio Pierre de Castelnau nel 1208, Papa Innocenzo III bandì una crociata contro di loro. La persecuzione dei Catari si protrasse per decenni finché, nel 1244, capitolò anche l’ultima roccaforte albigese a Montségur, in Occitania.

Nella letteratura occultista il Graal è ancora un oggetto fisico, ma esso è associato a una dottrina segreta ed eretica, rivelata solo agli adepti catari più puri all’ultimo grado dell’iniziazione. Otto Rahn, che peraltro riprende un tema già proposto da Antonin Gadal, fa notare la corrispondenza linguistica tra il nome del castello di Munsalvaesche, dove Wolfram von Eschenbach colloca il Graal nel Parzifal, e la roccaforte di Montségur. Orbene, il sacro calice sarebbe stato celato in un luogo sicuro dopo la distruzione della fortezza. Gli scritti di Otto Rahn giunsero infine tra le mani di Heinrich Himmler, Reichsführer delle famigerate SS tedesche. Nella convinzione che il Graal si potesse ritrovare, i nazisti commissionarono la ricerca del calice allo stesso Rahn ma, si direbbe per fortuna, invano.

La discendenza del Cristo

Anche per M. Baigent, R. Leigh e H. Lincoln37 i Catari sarebbero stati in possesso del Graal. Tuttavia, per tali autori, non si trattava di un oggetto materiale, quanto di un segreto preziosissimo da custodire a ogni costo. Durante la caduta di Montségur, raccontano, esso fu trasferito in una vicina località, nota come Rennes-le-Château, ch’era a quel tempo un’importante roccaforte albigese. Arriviamo ordunque al 1885, quando il sacerdote della piccola chiesa del paese, intitolata a Maria Maddalena, si scopre improvvisamente ricchissimo. Nessuno sa come abbia fatto Bérenger Saunière a trovare questi soldi. Eppure se ne ha testimonianza tangibile: il parroco spende milioni di euro per ristrutturare la chiesa e costruire una torre chiamata magdala.

Ora, secondo M. Baigent, R. Leigh e H. Lincoln, Saunière scoprì il nascondiglio del Graal. Ovvero ritrovò i documenti che ne rivelavano il segreto: Cristo non era rimasto celibe, come narrato dai vangeli, ma aveva sposato Maria Maddalena e generato una discendenza, nei secoli divenuta la dinastia dei Merovingi. Il Santo Graal sarebbe quindi in realtà il Sang Real, immagine del ventre che aveva ospitato il seme divino.

Tale narrazione è balzata agli onori della cronaca per la sua paventata storicità, oggetto peraltro del best seller Il Codice da Vinci di Dan Brown, ma si è rivelata infondata in toto. Gli autori hanno basato lo studio su una documentazione dello scrittore Gérard de Sède38. Tuttavia, in seguito si scoprì che quelle pergamene cifrate, che contenevano il segreto del Graal e che Saunière avrebbe rinvenuto a Rennes-le-Château, erano un falso. Erano state ideate dall’esoterista francese Pierre Plantard, in combutta con Gérard de Sède.

Il Graal secondo René Guénon ed Henry Corbin

Si riporta qui, per grandi linee, data la complessità della materia, il punto di vista di due filosofi del Ventesimo secolo che hanno esaminato gli aspetti esoterici del Graal, e cioè René Guénon ed Henry Corbin.

René Guénon

Secondo René Guénon (1886-1951) il calice fu ricavato da uno smeraldo caduto dalla fronte di Lucifero, e poi consegnato ad Adamo nell’Eden39. Ma il primo uomo, attraverso il compimento del peccato, lo perse irrimediabilmente. Cos’è dunque il Graal? Per Guénon, che lo paragona all’urna, una perla che rappresenta il terzo occhio della divinità induista Shiva, esso è il “senso dell’eternità”. Nel momento in cui mangiarono il frutto proibito, Adamo ed Eva divennero soggetti al tempo. Essi persero la dimensione unitaria dell’eternità in quanto attinsero dall’albero della conoscenza del bene e del male, per sua intrinseca natura divisivo. La ricerca del Graal, perciò, non è altro per l’uomo che la volontà di ritornare alla condizione eterna delle origini. E poiché essa appartiene a Dio, al suo centro, e quindi al cuore, Guénon afferma che:

“Il Santo Graal è la coppa che contiene il prezioso sangue di Cristo, e lo contiene addirittura due volte, poiché essa servì dapprima alla Cena, e in seguito Giuseppe d’Arimatea vi raccolse il sangue e l’acqua che sgorgavano dalla ferita aperta dalla lancia del centurione nel fianco del Redentore. Questa coppa si sostituisce dunque in qualche modo al Cuore di Cristo come ricettacolo del suo sangue, ne prende per così dire il posto e ne diviene come un equivalente simbolico;”

René Guénon, Il Re del Mondo, 1927

Henry Corbin e l’Imago Templi

Henry Corbin (1903-1978) intraprende una strada differente: vuole dedurre la natura del Graal a partire dall’edificio sacro, il Tempio, che lo ospita40. Corbin desume le nozioni templari dal Parzifal di Wolfram von Eschenbach e dalla sua continuazione di Albrecht von Scharfenberg, il Titurel41:

“Solo nel Nuovo Titurel di Albrecht von Scharfenberg l’Imago Templi appare in tutto il suo splendore architettonico. Anche qui il ciclo del Graal si sviluppa in un’epopea del Tempio, che culmina tra il Tempio di Salomone sul monte Moriah e la Gerusalemme Celeste”

Henry Corbin, L’Immagine del tempio, 1983

Il Tempio di Salomone era stato costruito per ospitare la manifestazione della presenza divina, la shekhinah, e così pure quello del Graal. E poiché Dio vuole dimorare nel cuore dell’uomo, l’architettura templare è un’imago, un simbolo idealizzato di ciò che ognuno dovrebbe essere:

“Come il Tempio è costruito con i materiali più nobili, così deve esserlo anche l’uomo, perché Dio vuole abitare l’anima umana” .

Henry Corbin, L’Immagine del tempio, 1983

In quanto archetipo della perfezione a cui l’umanità deve tendere, il Tempio del Graal è dunque per Corbin una prefigurazione escatologica del mondo.

Il Graal e la Sacra Sindone

Complessa da dimostrare, tra le interpretazioni recenti sul Santo Graal, è quella proposta da Daniel Scavone. Lo storico sostiene la tesi secondo cui il calice sia in realtà la Sacra Sindone42: il mito di una reliquia contenente il sangue di Cristo sarebbe nato dalle notizie incomplete che giungevano dall’Oriente. Schiavone suggerisce che la leggenda del Graal in Bretagna potesse originare da una errata trascrizione del nome del palazzo reale di Edessa, Britio, dove la Sindone sarebbe stata custodita. Ma per giungere a siffatta conclusione bisognerebbe dapprima dimostrare che la Sindone sia autentica, che esistesse quindi prima dell’opera di Chrétien de Troyes, che fosse custodita ad Edessa e nota alla storiografia come Mandylion… Il solo dibattito sulla reliquia torinese è ben lungi da una sua conclusione.

Il Graal e la pietra filosofale

Molte sono le similitudini che accomunano il Santo Graal alla pietra filosofale della ricerca alchemica43. Anche il lapis philosophorum, infatti, avrebbe il potere di donare l’immortalità e l’infinita conoscenza, e inoltre di convertire ogni metallo in oro. L’oro è incorruttibile: l’alchimista che scopre come trasmutare la materia vile può dunque superare la sua stessa condizione mortale. Si credeva che tutti gli elementi derivassero da un’unica sostanza originale, l’etere, presente in diverse proporzioni. La pietra filosofale, purissima nella sua composizione, avrebbe avuto il potere di catalizzare la trasformazione della materia in etere – solve et coagula – e quindi in composti più nobili come l’oro.

Come detto, non si trattava di una sorta di procedimento chimico, bensì l’alchimia possedeva un valore iniziatico, avrebbe dovuto permettere di raggiungere uno stato d’illuminazione, di elevare l’uomo oltre la sua condizione comune. Anche il Santo Graal è stato descritto nel Parzifal di von Eschenbach come una pietra, forse non a caso. La sua ricerca potrebbe non essere legata a un oggetto materiale, ma corrispondere a un cammino di elevazione spirituale, al pari della pietra filosofale. 

La ricerca interiore del Graal

La parola possiede un potere intrinseco, in quanto espressione del logos essa rivela la natura delle cose, che altrimenti rimarrebbe ignota. Sin dai primi albori letterari del Graal v’è una dicotomia tra ciò che è bene, in quanto rivelazione, e il male del non-detto. Il silenzio di Perceval innanzi al Re Pescatore non è solo una scelta personale, ma denota una mancanza di compassione esistenziale verso di sé e il prossimo. L’eroe, infatti, non dà il giusto peso a quanto passa innanzi ai suoi occhi, né si preoccupa del perché il Re fosse ferito. Perceval decide di rimanere all’oscuro della realtà; nella visione cristiana del Medioevo così accade in quanto egli è privo della Grazia divina, la quale apre la coscienza e guida i moti dell’animo. È questa l’assenza della luce che rischiara le tenebre, è il rifiuto della conoscenza ontologica.

Tutta la letteratura è di conseguenza incentrata su una Queste, e tale ricerca è diretta non tanto al possesso di un oggetto fisico, che peraltro muta di novella in novella e mai si comprende cosa sia, quanto alla scoperta di un Graal interiore dell’uomo. Esso è il significante nell’accezione più ampia possibile, allude cioè al desiderio di quella inafferrabile pienezza di sé, della conoscenza del mondo e dei misteri di Dio, di cui Perceval è inizialmente privo. La ricerca presuppone un percorso, un cambiamento anche radicale del sé, il raggiungimento di un altrove esistenziale e migliore: l’aspirazione dello status di cavaliere celeste, la guarigione del Re Pescatore, la riscoperta delle ascendenze mitiche del Regno di Bretagna… trovare il Graal significa trascendere la condizione dell’umano e raggiungere gli attributi del divino. Tuttavia, soltanto i puri di cuore possono avvicinarsi a Dio, soltanto i puri di cuore sono degni dell’immortalità.

Samuele Corrente Naso

Note

  1. É. Gilson, La mystique de la gràce dans la Queste del Saint Graal, in Les Idées et les lettres, Paris, Vrin, 1955. ↩︎
  2. Chrétien de Troyes, Le Roman de Perceval ou le conte du Graal, 1175-1190 circa. ↩︎
  3. F. Cardini, M. Introvigne, M. Montesano, Il Santo Graal, Giunti editore, 2006. Si veda anche: Elinando di Froidmont, Chronicon, 1123 circa, dove il termine gradalis indica il piatto dell’Ultima Cena, in G. Sessa, Graal simbolo millenario: Leggenda, Storia, Arte, Esoterismo, Ed. Arkeios, Roma, 2019. ↩︎
  4. Chrétien de Troyes, Il racconto del Graal, traduzione a cura di Davide Grassi. ↩︎
  5. A. Nutt, Studies on the Legend of the Holy Grail, With Especial Reference to the Hypothesis of its Celtic Origin, David Nutt, London 1888; W. A. Nitze, The bleeding lance and Philip of Flanders, The Mediaeval academy of America, 1946. ↩︎
  6. Leggenda Baile in Scàil, XI secolo in J. Pokorny, Zeitschrift fur Celtische Philologie, XII, 1918. ↩︎
  7. J. Marx, La Légende Arthurienne et le Graal, Slatkine, Geneve, 1996. ↩︎
  8. Leggenda irlandese dei Thuata Dé Dannan, IX secolo. ↩︎
  9. F. Zambon, Il libro del Graal, Ed. Adelphi, 2005. ↩︎
  10. Wolfram von Eschenbach, Parzival, traduzione di G. Bianchessi, in I grandi scrittori stranieri, Utet, Torino, 1957. ↩︎
  11. R. Barber, Graal, Piemme, Casale Monferrato, 2004. ↩︎
  12. Robert de Boron, “Roman dou l’Estoire de Graal ou Joseph d’Arimathie”, XIII secolo. Ms. E.39, Biblioteca Estense di Modena; ms. nouv. Acq. Fr. 4166, Biblioteca nazionale di Parigi. ↩︎
  13. Ibidem nota 11. ↩︎
  14. Guglielmo di Tiro, Historia in partibus transmarinis gestarum, 1184. ↩︎
  15. Rodrigo Jiménez de Rada, Historia de rebus Hispanie sive Historia Gotica, inizi XIII secolo. ↩︎
  16. Jacopo da Varagine, Cronaca di Genova dalle origini al MCCXCVII, Tipografia del Senato, 1941. ↩︎
  17. Restauro condotto a cura dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, il cui studio è pubblicato a questo link. ↩︎
  18. A.Beltrán, Estudio sobre el Santo Cáliz de la Catedral de Valencia, Valence, 1960. ↩︎
  19. Di Jl FilpoC – Opera propria, CC BY-SA 4.0, immagine. ↩︎
  20. Thomas J. Craughwell, Saints Preserved, Crown Publishing Group, 2011. ↩︎
  21. Ambrogio, De officiis ministrorum, 390 circa. ↩︎
  22. D. Carreras Ramirez, Canon of Zaragoza, Vida di S. Laurenzo,14 dicembre 1134: “En un arca de marfil está el Cáliz en que Cristo N. Señor consagró su sangre, el cual envió S. Lorenzo a su patria, Huesca;”. ↩︎
  23. Pergamena 136, archivi della Corona d’Aragona, Colecc. Martin el Humano, Barcellona. ↩︎
  24. Atto del notaio Jaume Monfort, datato 18 marzo 1437. ↩︎
  25. A. M. Barbagallo, San Lorenzo e il Santo Graal. Ipotesi di studio interpretativo su presenze storico artistiche, archeologiche ed iconografiche nell’area basilicale di San Lorenzo fuori le Mura in Roma, 2007-2009. ↩︎
  26. J. A. Robinson, William of Malmesbury ‘On the Antiquity of Glastonbury’ in Somerset Historical Essays, Oxford University Press, London, 1921; John Scott, The Early History of Glastonbury: An Edition, Translation, and Study of William of Malmesbury’s De Antiquitate Glastonie Ecclesiae, Boydell Press, 1981. ↩︎
  27. Giraldus Cambrensis, De principis instructione, 1193. ↩︎
  28. Zosimo, Storia nuova, V, 37.2. ↩︎
  29. G. Phillips, La ricerca del Santo Graal, Sperling & Kupfer Editori, Milano, 1996. ↩︎
  30. M. G. Lopardi, Celestino V e il tesoro dei Templari, 2010. ↩︎
  31. Inquisitio in partibus, dal processo di canonizzazione (1185) come trascritto da Sigismondo Tizio in Historiae Senenses, Cod. Chigi G. I. 31; F. Scneider – Analecta toscana, IV, Der Einsiedler Galgan von Chiusdino und die Anfaenge von S. Galgano – in Quelle und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken, XVII, 1914-1924. ↩︎
  32. V. dell’Aere, Il segreto dell’altare d’argento, Hera magazine n. 45, Nostradamus e i Templari, 2003. ↩︎
  33. B. Frale, Il Papato e il processo ai Templari. L’inedita assoluzione di Chinon alla luce della diplomatica pontificia, Viella, 2003. ↩︎
  34. T. Wallace-Murphy; M. Hopkins, Rosslyn: Guardian of Secrets of the Holy Grail, 1999. ↩︎
  35. S. Sora, The Lost Treasure of the Knights Templar, Inner Traditions/Destiny, 1999. ↩︎
  36. O. Rahn, Kreuzzug gegen den Gral. Die Geschichte der Albigenser, Broschiert, 1933. ↩︎
  37. M. Baigent, R. Leigh e H. Lincoln, Il Santo Graal – Una catena di misteri lunga duemila anni, Mondadori, 2003. ↩︎
  38. G. de Sède, “Le trèsor maudit”, 1967. ↩︎
  39. R. Guénon, Il Re del Mondo, 1927. ↩︎
  40. H. Corbin, L’Immagine del tempio, Boringhieri, 1983. ↩︎
  41. A. von Scharfenberg, Der Junge Titurel, 1268-1275. ↩︎
  42. D. Scavone, Joseph of Arimathea, the Holy Grail and the Turin Shroud, 1996. ↩︎
  43. A. Cerinotti, Il Graal, Giunti editore, 1998. ↩︎

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