L’abbazia di Pomposa, scrigno d’arte

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Quel lembo di terra compreso tra i rami del Delta del Po, di Goro e di Volano, e racchiuso dalle lagune adriatiche più a est, divenne sempre più insalubre. Le verdi foreste che i Romani avevano con cura governato e le distese bonificate erano ormai un ricordo. Piuttosto, esse apparivano ora come una valle d’incontaminate e insidiose paludi. Gli storici individuano nella “Rotta di Ficarolo” del 1152, e nei successivi eventi di fuoriuscita dagli argini del Po, il principio di un lento processo di trasformazione del territorio. Il cammino del fiume e il suo abitudinario incedere su letti secolari prese a variare con prepotenza1, seminando putridi acquitrini e malaria laddove pareva la vita inestinguibile.

Ancora all’alba del secondo millennio le fonti storiografiche ci tramandano di una vegetazione rigogliosa, persino prorompente nella sua amena armonia. Qui, nella Pianura Padana dell’Emilia-Romagna, l’Insula Pomposiana si stagliava prospera. Era questo il nome della maggiore delle isole, oggi non più tale, che il Po restituiva alla terra in mezzo a una frastagliata laguna. Pomposa, sebbene circondata dalle acque, era un importante luogo di passaggio. L’isola era situata lungo il tracciato dell’antica Via Popilia dei Romani, e il camminamento che la congiungeva a Ravenna prendeva il nome di via Romea. Attraverso questa viabilità secolare i pellegrini giungevano a Roma dall’Oriente e dalle lande del Nord.

Il cenobio di Pomposa, cenni storici

Pomposa, con i suoi boschi, il silenzio cullato dalle acque, e la favorevole collocazione geografica, non poteva rappresentare luogo migliore per i monaci. Presso l’odierno territorio di Codigoro è attestata l’esistenza di un’abbazia benedettina già nell’874. In una missiva, vergata il 29 gennaio di tale anno e indirizzata all’imperatore Ludovico II2, Giovanni VIII interveniva in una controversia giudiziaria, citando espressamente Pomposa. Il papa ribadiva che il “monasterium sanctae Mariae in Comaclo quod Pomposia dicitur” dovesse rimanere territorio dipendente dalla Santa Sede, in opposizione alle richieste dell’arcivescovo di Ravenna che ne rivendicava la proprietà.

Ciò nondimeno, il primo insediamento di una comunità monastica avvenne ben prima: alcune rilevazioni archeologiche, condotte presso l’odierna abbazia di Pomposa, dimostrano la presenza di resti databili al VI-VII secolo3. Tra questi vi sono un altare, resti musivi e una cappella presso la sala capitolare. In epoca longobarda l’Isola Pomposiana apparteneva al feudo monastico di Bobbio, ragione per la quale è ipotizzabile l’esistenza di un edificio di culto preesistente dedicato a San Colombano4. In seguito agli stravolgimenti che interessarono l’Italia dopo la discesa di Carlo Magno, dovettero ben presto giungere a Pomposa i Benedettini. La regione del Grande Po era facilmente raggiungibile da Cassino e rappresentava un luogo strategico, in quanto permetteva ai missionari di fare scalo lungo le rotte per l’Oriente.

I Benedettini e l’Abbazia di Pomposa

I Benedettini gettarono le fondamenta di quella che oggi è conosciuta come l’Abbazia di Pomposa, sebbene notevolmente rimodellata in seguito, forse persino ricostruita. In effetti, le fonti storiografiche paiono alquanto scarne e solo con fatica si riesce a ricostruire le vicende che interessarono il cenobio di Codigoro nei secoli immediatamente successivi. Gina Fasoli sostenne che l’Abbazia fu devastata dagli Ungari durante le incursioni in Italia (899-900) e si dovette procedere alla sua rifondazione5.

È possibile che la ricostruzione fu promossa per mano imperiale: Pomposa è menzionata nuovamente in un diploma del 30 ottobre 982 attraverso cui Ottone II in persona la consegnò alle dipendenze del monastero di San Salvatore in Pavia6. Con Ottone III, invece, il cenobio si vide assegnato per la prima volta alla chiesa di Ravenna (999). Da quel momento l’Abbazia di Pomposa fu soggetta a continui cambi di giurisdizione, oscillando tra l’essere feudo monastico pavese o ravennate.

L’abbaziato di Guido e il periodo di massimo splendore

Soltanto durante l’abbaziato di Guido fu raggiunta quell’auspicata stabilità, filoimperiale, che permise al monastero di rinnovarsi profondamente e stabilire un periodo d’importantissima fioritura culturale. È in questi anni che Pomposa assunse l’odierna conformazione architettonica. Al 1026 è infatti attestata la riconsacrazione della chiesa di Santa Maria7. Contestualmente dovettero concludersi i corposi lavori di rifacimento, condotti da tal maestro ravennate Mazulo, che riguardarono l’atrio e in parte il pavimento musivo in opus sectile. In questo periodo si formò a Pomposa Guido Monaco, anche noto come Guido d’Arezzo, che qui sviluppò il moderno sistema di notazione musicale, poi diffusosi in tutto il mondo8.

Nel 1063 l’architetto Deusdedit innalzò, invece, l’altissimo campanile (48 metri) che svetta ancora incontrastato sulla pianura Padana. Oltre alla chiesa di Santa Maria, il complesso abbaziale è completato in questi anni dall’attiguo monastero e dal Palazzo della Ragione, all’interno del quale l’abate esercitava il potere temporale conferitogli dall’imperatore. Qui, inoltre, era conservata un’eccezionale raccolta libraria che aveva raggiunto il massimo splendore sotto l’abate Girolamo. Purtroppo della biblioteca di Pomposa sono sopravvissuti soltanto pochi manoscritti, comunque sufficienti per rendere l’idea della sua importanza nei secoli XI e XII.

Il declino dell’Abbazia di Pomposa

Con i progressivi cambiamenti dell’assetto idrografico a partire dal XII secolo, presso la regione del Delta del Po, le condizioni di vita a Pomposa divennero sempre più insostenibili. È possibile rinvenire un ultimo periodo di fioritura artistica soltanto allorquando Pietro da Rimini e Vitale da Bologna realizzarono, rispettivamente, i magistrali affreschi presso il refettorio (1316-1320) e l’abside (1351). Il cenobio di Pomposa perse poi gradualmente d’importanza e prestigio, fino ad essere annesso ai possedimenti degli Este di Ferrara. Al 1553 è datato il trasferimento dei monaci presso un monastero cittadino; esattamente un secolo dopo papa Innocenzo X decise per la sua definitiva soppressione.

La chiesa di Santa Maria

Sul lato destro del nartece della chiesa di Santa Maria a Pomposa una faccia fittile osserva con sguardo severo i visitatori. La tradizione vuole che quel volto appartenga al costruttore dell’atrio, il quale si firmò in una lapide poco più in basso come Mazulo magister. Egli dovette aggiungere il nartece appena prima del 1026, anno di riconsacrazione dell’Abbazia. Mastro Mazulo realizzò il suo intervento architettonico come espressione del bello in quanto riscoperta dell’antico. Per tale ragione egli fece ampio uso di materiali di reimpiego, lapidei o fittili, appartenenti a preesistenti costruzioni, persino di parecchi secoli addietro. Inoltre fuse stili culturali diversissimi e lontani tra di loro: sulla facciata dell’atrio è possibile rinvenire influssi bizantini e islamici, longobardi e romanici.

La chiesa di Santa Maria accoglie i visitatori dall’esterno con il maestoso campanile di area lombarda. Risalente al 1063, come attestato da un’iscrizione posta alla base, esso è opera dell’architetto Deusdedit. Il campanile è contraddistinto da nove ordini di finestre che aumentano di dimensioni procedendo verso l’alto, così da alleggerire il peso della struttura. Alle monofore del primo piano si susseguono bifore e trifore, sino ad arrivare alle quadrifore della sommità.

La simbologia degli esterni

Lungo la facciata dell’atrio decorrono tre fasce orizzontali di mattonelle scolpite, così come lungo gli archi, che raffigurano motivi fitoformi e animali. Si noti la presenza di un monaco sulla fascia inferiore destra e le simbologie mitologiche del bestiario medievale, tra cui il grifone. Tra i fregi è presente anche l’immagine di Giona che viene inghiottito da una balena.

Le scodelle policrome

Sulla facciata dell’atrio sono collocate otto scodelle policrome in cotto, realizzate con la tecnica a ingobbio, di ascendenza egiziano-copta. All’interno di esse si può intravedere il simbolo dell’Abbazia di Pomposa: una stella a otto punte. Il motivo a scodelle è ripreso anche sul campanile laddove esse contengono animali dipinti o disegni di fantasia.

La funzione simbolica delle scodelle è quella di riflettere il sole a mezzogiorno. Come, infatti, nessuno può osservare il sole a occhio nudo ma può vederne solo il riflesso, così per giungere a Cristo vi è bisogno dell’intercessione della Vergine Maria e di san Giovanni Battista. Non a caso questa simbologia (deesis) è raffigurata nel ciclo di affreschi della scuola di Rimini presso il refettorio.

Tra le otto scodelle dell’atrio sono collocate alcune formelle in pietra dai forti connotati simbolici. In particolare, il pavone, l’aquila e il leone appartengono al bestiario che connota le virtù di Cristo.

Gli elementi di reimpiego

La facciata dell’atrio è arricchita da numerosi elementi di reimpiego. Tra questi, una croce marmorea proveniente forse da un’iconostasi di una chiesa più antica e di influenza ravennate (Fig.1); il busto di un soldato romano, collocato sull’atrio in occasione di lavori realizzati nel XII secolo (Fig.2).

Ai lati delle tre arcate che si aprono sull’atrio sono collocate due transenne circolari, al cui interno è raffigurato per ciascuna un albero della vita e dei grifoni che si cibano dei suoi frutti. Le due transenne, materiale di reimpiego probabilmente longobardo, secondo il Salmi9 sono realizzate a imitazione di quelle presenti nella perduta Porta Aurea di Ravenna. Le fattezze dell’albero della vita sono state oggetto di differenti interpretazioni. Secondo Carla di Francesco10 esse subiscono influenze persiane. È possibile intravedere un’importante somiglianza con l’Irminsul dei Sassoni, la grande quercia che regge il cielo, simulacro cosmogonico della divinità.

Gli interni della chiesa di Santa Maria

La chiesa abbaziale di Santa Maria è di chiaro impianto ravennate. Gli interni si ispirano, infatti, alle basiliche di Sant’Apollinare in classe e Sant’Apollinare nuovo; l’abside circolare diviene all’esterno poligonale, come in San Vitale. Santa Maria è suddivisa in tre navate, senza transetto, per mezzo di colonne con capitelli romani e bizantini. Questi sono finemente scolpiti con ornamentazioni a foglie e a tralci.

Il pavimento musivo

Il mosaico pavimentale della chiesa, in opus sectile, rappresenta una delle più preziose testimonianze dell’intero complesso, appartenendo la sua realizzazione a vari secoli (VI-XII secolo). I motivi della decorazione musiva includono animali dal profondo significato: il cervo, metafora di Cristo, si contrappone al drago, simbolo del male. Le numerose figure di uccelli, invece, rappresentano i fedeli.

Gli affreschi

Gli affreschi della chiesa abbaziale, invece, sono del XIV secolo. Si denota uno stato di conservazione ottimale nel suo complesso, sebbene alcune porzioni pittoriche lungo le navate laterali siano andate perdute.

L’affresco sul catino centrale è un’opera, straordinaria, di Vitale da Bologna datata 1351: è la raffigurazione del Cristo in maestà (racchiuso in una mandorla o vesica piscis) con angeli e santi. La Vergine Maria sulla destra regge in mano un cartiglio, attraverso cui intercede verso Dio per un corteo di fedeli che aspirano al paradiso. Seguono, lungo le fasce inferiori, i quattro evangelisti, i dottori della Chiesa e alcune scene tratte dalla vita di Sant’Eustachio. Tra queste vi sono la sua conversione e il martirio, avvenuto all’interno del corpo di un bue arroventato.

Gli affreschi della navata centrale, di maestranza bolognese, riproducono scene dell’Antico Testamento (fascia superiore), del Nuovo Testamento (fascia mediana) e dell’Apocalisse (fascia inferiore). Le pitture parietali, come similarmente per le opere di maestranze medioevali coeve, hanno sia funzione decorativa che illustrativa della Bibbia, giacché gran parte dei fedeli era analfabeta.

Sulla controfacciata è invece posta la rappresentazione pittorica del Giudizio Universale. La scena, a tratti cruenta e impressionante, ha la funzione di mostrare ai visitatori come le azioni compiute in vita saranno soggette al giudizio finale: salvezza e dannazione perdureranno per l’eternità.

Il monastero di Pomposa

Il monastero, posto lateralmente alla chiesa di Santa Maria, ospita ambienti dalla straordinaria importanza artistica con pitture del Trecento: la sala capitolare custodisce affreschi di scuola giottesca; il refettorio eccezionali opere di Pietro da Rimini realizzate tra il 1316 e il 1320. Entrambi gli ambienti sono accessibili direttamente traversando il chiostro quadrangolare del complesso. Di esso permangono soltanto i quattro pilastri angolari, i quali includono colonne tortili e rilievi fitoformi.

La sala capitolare

Sulla parete di fondo della sala capitolare è raffigurata una Crocifissione. Uno stuolo di angeli si dispone attorno al Cristo morente, compianto dalla Vergine Madre posta ai suoi piedi. Ai fianchi della scena centrale sono, invece, dipinte le figure degli apostoli Pietro e Paolo, cui si affiancano i santi Guido e Benedetto e le immagini di profeti.

Il refettorio

Di grande interesse artistico sono gli affreschi del refettorio. A dominare la scena centrale vi è la figura del Cristo benedicente tra la Vergine Maria, San Giovanni Battista, San Guido e San Benedetto. Lateralmente sono raffigurate scene tratte dalla vita di San Guido, oltre ad una preziosa Ultima Cena. Tra gli episodi relativi all’agiografia del santo di Pomposa si cita il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino di fronte al vescovo ravennate Gebeardo.

Il Palazzo della Ragione

Poco distante dal monastero si erge il Palazzo della Ragione, sede del potere temporale dell’abate. L’edificio risale all’undicesimo secolo e si apre all’esterno attraverso logge disposte su due differenti ordini. Quella inferiore dà accesso ad un atrio stretto, scandito in lunghezza da arcate con colonne differenti di reimpiego e pilastri in laterizio. Alcuni capitelli, finemente scolpiti, raffigurano anch’essi l’albero della vita.

Samuele Corrente Naso

Note

  1. A. Bondesan, M. Bondesan, Breve storia idrografica del territorio ferrarese. ↩︎
  2. P. Federici, Rerum Pomposianarum historia, 1781. ↩︎
  3. S. Patitucci Uggeri, Castra bizantini nel delta padano, École Française de Rome, 2006. ↩︎
  4. San Colombano: monaco irlandese che ha evangelizzato la provincia di Piacenza nei secoli VI-VII. ↩︎
  5. Incognite della storia dell’abbazia di Pomposa fra il IX e l’XI secolo, in «Benedictina», anno XII, nn. III-IV (1959), pp. 197-214. ↩︎
  6. M. Salmi, L’abbazia di Pomposa, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1936; L’abbazia di Pomposa, Roma, La Libreria dello Stato, 1938. ↩︎
  7. Ibidem. ↩︎
  8. Guido Monaco, Micrologus, 1026. ↩︎
  9. Ibidem nota 6. ↩︎
  10. C. Di Francesco, L’abbazia e il Museo di Pomposa, De Luca, 2000. ↩︎
  11. Sailko, licenza CC-BY-SA. ↩︎
  12. Sailko, licenza CC-BY-SA. ↩︎

Autore

Samuele

Samuele è il fondatore di Indagini e Misteri, blog di antropologia, storia e arte. È laureato in biologia forense e lavora per il Ministero della Cultura. Per diletto studia cose insolite e vetuste, come incerti simbolismi o enigmatici riti apotropaici. Insegue il mistero attraverso l’avventura ma quello, inspiegabilmente, è sempre un passo più in là.

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