Quale sentimento nell’innalzare la pietra, elevare il sacro oltre la terra, e tra fisica e metafisica comporre vie che s’orientavano tra desideri d’eternità? I menhir della Sardegna tratteggiano sentieri oscuri, enigmatici agli occhi di noi uomini d’oggi. La pietra è essenziale, e nella sua durezza difficile da penetrare; così pure le intenzioni, le idee, e il sentire comune di quegli uomini che, primi fra tutti, decisero di plasmare il mondo. La statuaria antropomorfa si diffuse in contemporanea in Lunigiana, in Valle d’Aosta e in molte altre parti d’Europa, ma in Sardegna assunse una rilevanza di prim’ordine, declinandosi attraverso locali e affascinanti sfaccettature.

I menhir della Sardegna, simboli maschili di fertilità
Sullo scorcio del Neolitico, quando il IV millennio a.C. aveva oltrepassato da un po’ la sua metà, sull’Isola iniziarono a comparire i menhir aniconici, pietre verticali infisse nel terreno, monoliti nient’affatto sbozzati ma rozzi nella loro misteriosa geometria. Quei segni primitivi erano l’avanguardia di un nuovo modo di concepire il mondo. Essi esprimevano, per le genti della cultura di Ozieri1, e forse prima ancora di San Ciriaco2, una tensione spirituale protesa verso il territorio, ora inteso come spazio vitale in cui circoscrivere la propria esistenza. Il sorgere dei menhir indicava innanzitutto il mutare del rapporto con la terra, madre benigna e generosa ma, in quelle comunità del Neolitico dedite all’agricoltura, anche da governare attraverso un’ideale fecondazione. I monoliti, in quanto pedras fittas, simboleggiavano dunque un principio maschile3; la fertilità dei campi deve essere favorita mimando il meccanismo della procreazione4.
L’affermarsi di simboli virili nelle culture prenuragiche del Neolitico rispecchia il momento in cui differenti clan entrarono in competizione tra loro per le risorse naturali. Ne conseguì l’esigenza di stabilire e difendere i propri possedimenti, non di rado per mezzo della guerra, ch’era appannaggio degli individui maschi. Così, l’idea di seminare il suolo attraverso segnacoli verticali e ben visibili – alcuni menhir in Sardegna superano i cinque metri d’altezza – serviva a rivendicare una sorta di primogenitura sacra del territorio. Allo stesso tempo, il monolite fungeva da totem della comunità, cioè ne definiva l’appartenenza dei membri. È il caso, ad esempio, del menhir aniconico di Monte d’Accoddi (3500-3300 a.C.), intorno al quale si svilupperà un insediamento abitativo e, nell’arco di alcuni secoli, la ben nota area santuariale con l’altare a terrazza.

I menhir protoantropomorfi
Difficile è oggi comprendere la tensione spirituale, le profonde ragioni cultuali e antropologiche che spinsero gli antichi Sardi di cultura Ozieri a plasmare la roccia verso forme e simbologie più complesse. I menhir protoantropomorfi non avevano ancora fattezze umane, ma nell’ombra dell’immaginazione comunicavano pensieri e parole, rendevano manifesta la presenza viva della materia, dell’essenza trascendente che rendeva ubertosa la terra. Essi iniziavano ad assumere una sagoma ogivale o sub-ogivale, e la superficie frontale piana veniva levigata attraverso una lenta e paziente lavorazione a martellina. Pietra sulla pietra, dunque, riflesso di una realtà che non contemplava il superfluo.
In apparenza quelle pietrefitte non sprigionano la forza espressiva che sarà propria delle più evolute statue antropomorfe. Tuttavia, nulla esclude che la figura umana venisse ugualmente rappresentata attraverso la pittura, magari impiegando l’ocra rossa che tanto pregna di significazioni era per le popolazioni del Neolitico. La faccia anteriore dei menhir, appiattita con cura, potrebbe esserne un indizio, se non una prova, poiché ben si prestava all’apposizione di uno strato pittorico. In ogni caso, tale superficie doveva possedere una qualche funzione rituale. A Is Cirquittus di Laconi essa venne ricoperta da una serie di coppelle, testimonianza di riti che prevedevano la donazione di un’offerta alla madre terra.

Il culto degli antenati nei menhir della Sardegna
I menhir divennero antropomorfi allorché la sagoma di pietra iniziò a essere modellata in una silhouette. Appena abbozzati si delinearono il capo e le spalle di una figura umana, comparirono timidamente i primi tratti di un viso. Questa particolare forma d’arte rifletteva la volontà di avvicinare l’uomo alla pietra, costituiva cioè una metafora potente attraverso cui rendere eterno e incorruttibile ciò che invece è caduco, mortale. I menhir antropomorfi erano immagine di uomini per l’eternità, antenati sacri ed eroi divinizzati che ivi trovarono rifugio dall’oblio, così permanendo alla memoria dei posteri. Essi si stabilirono in quel tempo e in quel luogo e, al pari di vigili guardiani, assursero a spiriti guida, divennero coloro che indicano la via.

Ciò consentiva, in un certo senso, di storicizzare il possesso di un determinato territorio, di sacralizzarlo al fine di rivendicarne l’eredità. L’appartenenza dei membri alla comunità veniva così definita non solo in quel momento presente, ma attraverso un ascendente familiare o tribale.
Sacri allineamenti
Le raffigurazioni litiche degli antenati costituivano, talvolta, vere e proprie aree santuariali. Simili a boschi di veneranda età, i monoliti della Sardegna prenuragica venivano innalzati in gruppi, o disposti in lunghi e affascinanti filari, come a voler delimitare il territorio sacro sul quale dovevano vegliare. Questi centri cultuali, costituiti da più allineamenti ravvicinati, permettevano di conferire un ordine fisico, e a ben vedere anche metafisico, alla natura. Permettevano cioè di sovrascriverla affinché divenisse più prevedibile, familiare. È questa l’essenza stessa dei riti, che attraverso la reiterazione di gesti, come l’infissione di blocchi litici, potevano dirimere dal caos l’esistenza, permettevano di elaborare la paura dell’ignoto. A ciò doveva accompagnarsi una semantica orale, oggi inconoscibile, necessaria a codificare il rito, sì da conferirgli compiutamente l’efficacia extra-empirica desiderata.
“I segni sono dei mitogrammi legati a particolari e complessi cerimoniali nei quali rivestono un carattere preminente parole iterate e litanie pronunciate davanti la comunità“.
M. Perra, Le statue antropomorfe prima dei nuraghi. Nel volume: A. Moravetti, P.Melis, L. Foddai, E. Alba, La Sardegna Preistorica, Corpora delle antichità della Sardegna, 2017, Carlo Delfino editore & C.
La realizzazione degli allineamenti seguiva rigidi criteri spaziali, forse da mettersi in relazione con l’osservazione della volta celeste. È l’impressione che sovviene camminando tra i menhir di Biru ‘e Concas, nel territorio di Sorgono.

Il sito archeologico di Biru ‘e Concas a Sorgono
Il complesso archeologico è di primaria importanza per lo studio del fenomeno megalitico in Sardegna. Esso ospita circa centodieci monoliti di vario tipo: perlopiù aniconici e protoantropomorfi, ma anche una pietrafitta antropomorfa e alcune statue stele con pugnale. La maggior parte dei menhir di Biru ‘e Concas furono allineati su due precise direttrici, orientate sull’asse Nord-Sud5, a dimostrazione di una qualche significazione sacra che ancora ci sfugge. L’importanza cultuale che il sito di Sorgono ebbe nell’antichità si evince dall’utilizzo ininterrotto dell’area per più di mille anni, tra il Neolitico recente (3400-2800 a.C.) e l’Età del Rame (2800-1900 a.C.), in accordo con i materiali fittili rinvenuti6. Questo ampio lasso di tempo vide il susseguirsi di differenti insediamenti appartenenti alle culture di Ozieri, di Abealzu e di Monte Claro, cui pertiene il recinto megalitico che delimita l’area sacra7.

Il Pranu Muttedu di Goni: i menhir della Sardegna e i culti funerari
Anche nel Pranu Muttedu di Goni le genti di cultura Ozieri costituirono un grandioso centro spirituale all’aperto, provvisto di numerosi menhir protoantropomorfi (3200 – 2800 a.C.)8. Essi distribuirono i monoliti in modo vario: oltre che in filari con allineamento Est-Ovest, anche a gruppi di due o tre, ma soprattutto in prossimità di alcune tombe monumentali. Le sepolture vennero costituite con ciste litiche o ricavate all’interno di massi erratici, vi si accedeva per mezzo di ingressi con ortostati oppure traversando corridoi a dromos. Le camere funerarie erano quindi racchiuse entro circoli megalitici, chiamati peristaliti, e infine accompagnate da circa sessanta menhir.
Le tombe della necropoli di Pranu Muttedu disvelano un aspetto fondamentale del megalitismo antropomorfo in Sardegna, ovvero che i monoliti, in qualche maniera, dovessero ricollegarsi alla sfera funeraria e ai relativi riti di passaggio. È stato ipotizzato che le sepolture ospitassero alcuni membri insigni della comunità9, forse quegli stessi antenati a cui si rivolgeva il culto delle pietrefitte. Guerrieri divinizzati, dunque, come sembra confermare il ricco corredo rinvenuto nella tomba V, il quale annovera armi in ossidiana e frammenti di una collana d’argento.
Le statue-menhir della Sardegna e l’immagine del capovolto
L’ultima tappa del lento divenire antropomorfo dei menhir della Sardegna si materializzò nel pieno eneolitico, intorno al 2600-2400 a.C.. Alla cultura di Filigosa e alla successiva fase detta di Abealzu si deve la definizione di monoliti scolpiti a immagine e somiglianza dell’uomo. Si tratta quindi di statue-menhir, oppure di statue-stele giacché realizzate attraverso l’impiego di lastre a superficie piana, infisse verticalmente. Gli archeologi hanno rinvenuto statue-menhir in tutta l’Isola, ma in prevalenza nelle regioni storiche del centro: nel Sarcidano, nel Marghine, nel Barigadu e nel Mandrolisai. Una parte consistente di esse è ospitata presso il Museo della statuaria preistorica in Sardegna, sito nel Palazzo Aymerich di Laconi.

Le figure astratte degli antenati
Rispetto alle similari rappresentazioni litiche della Lunigiana, o di altre parti del continente, quelle sarde furono caratterizzate da contorni più sfumati, più astratti. I tratti somatici, poco accennati, si concretizzavano nella mera stilizzazione a “T” del naso e delle sopracciglia del volto, senza bocca, e in maniera essenziale venivano parimenti scolpiti i particolari del vestiario.
Gli antenati apparivano dunque austeri e impersonali. Le statue-menhir esprimevano l’idea del guerriero più che una sua puntuale rappresentazione figurativa, ne racchiudevano l’essenza per mezzo di simboli codificati. La riproduzione di un doppio pugnale orizzontale, a livello dell’addome, era espressione di virilità e forza, e permetteva di impersonare la figura di un eroe maschile. Rare erano le sculture femminili, forse immagine di eccezionali figure muliebri, identificabili per la presenza di bozze mammellari. Tali raffigurazioni erano certo connesse al culto della dea madre, in quanto ospitavano motivi simbolici simili a quelli rinvenuti presso le necropoli a domus de janas.

Il capovolto
Si comprende come anche le genti dell’eneolitico associassero il culto degli antenati ai riti di passaggio funerari. Nelle statue-menhir dell’eneolitico sardo la dimensione ultraterrena del defunto era espressa attraverso il perturbante simbolo del capovolto, trasposizione scultorea di analoghi petroglifi rupestri. Numerose, infatti, sono le sculture rinvenute che accolgono sulla sommità anteriore la raffigurazione di un uomo a testa in giù, a mezzo busto; le braccia sono allargate, sì da farlo rassomigliare a un candelabro o un tridente. Prevaleva cioè, nelle genti di cultura Abealzu-Filigosa, l’idea che il mondo dell’oltretomba fosse speculare a quello dei vivi, rovesciato e complementare. L’anima del defunto si volgeva dal cielo alla terra giocoforza alla rovescia, e in tal modo si manifestava agli astanti.

In tal modo i defunti ricevevano la protezione degli eroi divinizzati che, in qualità di spiriti guida, conducevano l’anima verso l’aldilà10.
Il doppio pugnale
Il pugnale delle statue-menhir maschili è detto doppio, giacché sembrerebbe essere costituito di due lame triangolari contrapposte. Tuttavia, non è chiaro se la porzione sinistra debba intendersi, invece, solo come un’impugnatura, poiché meno acuminata e mancante del segno a “V” che contraddistingue l’opposta metà. Se così fosse, l’arma non sarebbe dissimile da quella, in rame, impiegata dalle coeve culture del Nord Italia, come a Remedello11.
La propensione a voler evidenziare l’aspetto guerresco degli antenati-eroi era certamente il segno di una società, quella dell’eneolitico sardo, in cangiamento. Segno di conflittualità12, il doppio pugnale rivela forse una crescente tensione tra le genti di cultura Abealzu e quelle di Monte Claro, provenienti dal sud della Sardegna13. Ciò permetterebbe di contestualizzare la marcata territorialità delle statue-menhir della Sardegna, la cui distribuzione non è uniforme, ma si concentra in prevalenza nel centro dell’Isola.
L’alba di un nuovo mondo
Il doppio pugnale, pertanto, era il segno della “costruzione dell’ideologia del guerriero14. Esso esprimeva un’attitudine nuova: il governo del territorio non era più soltanto spirituale, ideale, come avveniva ai tempi dei primi menhir aniconici, ma andava ora difeso con le armi, diveniva materia da possedere.
L’eneolitico introdusse a un mondo nuovo in cui gli antichi Sardi videro aumentare risorse, ricchezze e commerci, ma anche conflitti e, da quel momento, il sopraggiungere di nuove genti dal mare. Dal continente provenivano i popoli di Monte Claro e la più tarda cultura campaniforme. Lo spazio di appartenenza andava dunque presidiato nella sua componente materiale: sorsero recinzioni megalitiche, come a Monte Baranta (2500 – 2200 a.C.), e si cominciarono a innalzare edifici di pietra a controllo del territorio e delle risorse naturali. Sono questi i presupposti che porteranno al diffondersi di una facies culturale differente, destinata a cambiare per sempre il volto della Sardegna; ecco il sorgere, all’alba di un mondo nuovo, della civiltà nuragica.
Samuele Corrente Naso
Note
- M. Perra, Le statue antropomorfe prima dei nuraghi. Nel volume: A. Moravetti, P.Melis, L. Foddai, E. Alba, La Sardegna Preistorica, Corpora delle antichità della Sardegna, 2017, Carlo Delfino editore & C. ↩︎
- P. Melis, La religiosità prenuragica. Nel volume: A. Moravetti, P.Melis, L. Foddai, E. Alba, La Sardegna Preistorica, Corpora delle antichità della Sardegna, 2017, Carlo Delfino editore & C. ↩︎
- G. Lilliu, La civiltà dei sardi dal Paleolítico all’età dei nuraghi, Il Maestrale, 2004. ↩︎
- E. Atzeni, M.G. Melis, Villaperuccio tra ipogeismo e megalitismo. Testimonianze archeologiche dalla preistoria all’età romana, Comune di Villaperuccio/Università degli Studi di Cagliari, Villaperuccio, 2000. ↩︎
- M. A. Fadda, Civiltà arcaica del nuorese, in Archeologia Viva 134, 2009. ↩︎
- E. Atzeni, La scoperta delle statue-menhir. Trent’anni di ricerche archeologiche nel territorio di Laconi (a cura di G. Murru), Cagliari; Laconi. Il museo delle statue-menhir, «Sardegna Archeologica. Guide e Itinerari», 34, Sassari, 2004. ↩︎
- F. Campus, L. Usai, Sorgono. Complesso archeologico Biru ’e Concas, «Erentzias», 1, Notiziario, Sassari, 2001. ↩︎
- E. Atzeni, D. Cocco, Nota sulla necropoli megalitica di Pranu Mutteddu, Goni, in Atti 1989. ↩︎
- Ibidem nota 1. ↩︎
- E. Atzeni, Le statue-menhir di Laconi, in Aa.Vv. 1978. ↩︎
- E. Atzeni, Le statue-menhir di Piscina ‘e Sali, Laconi-Sardegna, in Archéologie en Languedoc, n° 22, 1998. ↩︎
- Ibidem nota 3. ↩︎
- F. Soula, Le pietre fitte dell’area corso-sarda. Studio sistemico dei territori, Università di Sassari, Tesi di Dottorato in Preistoria, 2012. ↩︎
- J. Guilaime, J. Zammit, Le sentier de la guerre. Visages de la violence préhistorique, Paris, 2001. ↩︎