La dea madre prenuragica della Sardegna

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Il lento definirsi di culture nella Sardegna prenuragica rivela una ricerca interiore dell’uomo, che attraverso riti e credenze delinea nuove cornici di senso metafisiche, nuove letture dell’esistenza. Il primitivo sentire di un ordine d’oltre-natura, che intuito appena trascende nella sfera del sacro, si concretizza nell’immagine archetipica di una divinità generatrice femminina. Quello della dea madre prenuragica è un tema figurativo ricorrente nelle rappresentazioni statuarie dell’Isola. Le numerose sculture rinvenute dagli archeologi suggeriscono, infatti, l’esistenza di una religiosità diffusa, radicata tra differenti facies culturali1.

Per ovvie ragioni, non si conoscono gli aspetti rituali connessi a tale culto, se non quelli materiali, ma si può immaginare che gli antichi Sardi venerassero la dea madre in quanto trasfigurazione metafisica della madre terrena. Essa, pertanto, poteva avere la funzione extra-empirica di garantire la ri-nascita oltre la morte, o più semplicemente la continuazione della vita. Si credeva, presso le culture prenuragiche, che il defunto proseguisse nelle sue attività quotidiane parimenti nell’aldilà, fattore evidentissimo nei corredi e nelle architetture funebri di quelle genti.

La Venere di Macomer

Si può rintracciare una precoce attestazione della dea madre prenuragica in una statuetta, proveniente dal Riparo S’Adde di Macomer, che rivela peraltro i primigeni tratti antropomorfi della Sardegna. Si tratta di una venere, risalente forse al Paleolitico superiore2, scolpita all’interno di un blocco in basalto. La Venere di Macomer pare fuoriuscire dalla roccia, non come scultura, ma come fosse essa stessa generata dalla terra; chiunque l’abbia realizzata, sembra quasi averla liberata dalla materia che l’imprigionava.

Tale idoletto ha il corpo di una donna – alle gambe sinuose e gli abbondanti glutei si contrappongono il solo seno sinistro e la mancanza degli arti superiori – ma la testa appartiene a un roditore. La Venere di Macomer è dunque raffigurazione di un animale totemico: esso è stato identificato nel prolago sardo3, ormai estinto, ma all’epoca molto prolifico. Il prolago fungeva idealmente da spirito guida della comunità, sacro garante della vita che si genera oltre la morte.

La dea madre prenuragica nel Neolitico medio

Le sculture della dea madre caratterizzano, per mezzo di differenti tipologie figurative, soprattutto le culture prenuragiche del Neolitico. Presso le necropoli della cultura di Bonu Ighinu (4000-3500 a.C.) – si cita per numerosità dei rinvenimenti quella di Cuccuru S’arriu nel Sinis – sono riemerse decine di statuine femminili. Esse furono collocate all’interno delle sepolture, tombe a pozzetto sovente ricoperte d’ocra rossa, e in qualche caso persino tra le mani del defunto. Le sculture della dea madre vennero realizzate con tecniche e finiture variegate, in argilla o in pietra (marna, gesso, tufo), e le dimensioni oscillano tra i tre e i diciotto centimetri circa4.

La madre di Bonu Ighinu appartiene alla tipologia figurativa detta volumetrica: la testa, sproporzionata rispetto al resto del corpo, ha sovente un copricapo, mostra i caratteri del volto in rilievo, il naso e le sopracciglia formano una “T”, e la bocca si allunga in un sorriso arcaico; il busto è suddiviso in torace e ventre da netti solchi; le braccia assumono pose statiche dietro la schiena o in prossimità dei fianchi. Una variante più tarda delle madri di Bonu Ighinu è quella ascrivibile alla cultura di San Ciriaco (3400-3200 a.C.), in cui si evidenza una più spiccata tendenza alla steatopigìa dei glutei e al naturalismo delle forme.

Lo stile geometrico della dea madre nelle culture prenuragiche del Neolitico recente

Nel corso del Neolitico recente, lo stile figurativo della dea madre sarda subisce un processo di geometrizzazione, le sculture si appiattiscono e i tratti divengono sempre più stilizzati. Presso la cultura di Ozieri, e le successive Filigosa e Abealzu, la manifestazione del sacro è quasi concettuale; la presenza degli attributi femminili è ridotta all’essenzialità, come si evince da piccoli seni. Ciò nondimeno, è evidente l’eredità delle culture prenuragiche più antiche, se ne trova riscontro nei medesimi schemi posturali e nelle tecniche scultoree. Nello stile geometrico persino l’antico tratto somatico della steatopigìa viene richiamato da un abile modellamento delle forme.

Assoluta novità stilistica è invece la caratterizzazione a “placca traforata”. In alcune statuette della cultura di Abealzu-Filigosa, infatti, la materia tra il busto e gli arti superiori è stata asportata, accentuando la componente geometrica della figura. Il capo, a disco, poggia sovente su uno slanciato collo; il volto racchiude occhi globulari e naso rettangolare. Tali manufatti sono stati rinvenuti in contesti archeologici afferenti perlopiù alle domus de janas, le caratteristiche tombe prenuragiche scavate nella roccia, ma anche nei pressi di edifici monumentali, come l’altare sacro di Monte d’Accoddi.

Il ciclo della vita

Sebbene al cangiare delle tipologie figurative, la dea madre prenuragica, divinità generatrice dei primordi, ha preservato tra le culture i medesimi aspetti cultuali. Nella preistoria dell’umanità intera, non solo in Sardegna, la capacità femminile di procreare rappresentava un mistero profondo, celava il segreto intimo dell’esistenza. Come un dono insondabile, la donna concepiva, portava seco nuove forme di vita, generava e nutriva al pari della madre terra. Il processo della fecondazione, d’altronde, era alla coscienza ancora oscuro per gli uomini di quel tempo5. Meccaniche divine si credevano sottese al potere femminile, a quella forza creatrice e dirompente propria della natura stessa dell’universo. Questo impulso vitale si esprimeva attraverso cicli di continua rigenerazione: la rinascita al mattino della luce oltre le tenebre, il risveglio primaverile nel corso dell’anno, il ritornare periodico delle stelle e, specularmente, il risorgere della vita oltre la morte.

Gli antichi Sardi credevano che l’esistenza continuasse nell’aldilà, che l’uomo rinascesse non più da una madre di carne, ma dalla terra stessa. Nella Grotta di Cuccuru s’Arriu i defunti furono seppelliti rannicchiati. Simili a bambini nel grembo di una donna, essi si preparavano, questa volta, a rinascere in una dimensione nuova. I corpi vennero ricoperti d’ocra rossa, colore simbolico che richiama la prima immagine del nascituro dopo il parto, e in tal senso assicurava il momento della ri-nascita nell’oltretomba. Tra le mani, infine, fu loro posta una statuina della dea, madre genitrice, nutrice che accompagna i suoi figli nell’ultimo viaggio.

Samuele Corrente Naso

Note

  1. G. Lilliu, La Civiltà dei Sardi dal Paleoltico all’Età dei Nuraghi, Nuova Eri Edizioni, Torino, 1988. ↩︎
  2. M. Mussi, La Venere di Macomer nel quadro del Pleistocene superiore finale europeo, 2012. Dagli atti della XLIV Riunione Scientifica dell’I.I.P.P. “La Preistoria e la Protostoria della Sardegna”, Firenze, 23-28 novembre 2009. ↩︎
  3. Ibidem. ↩︎
  4. G. Paglietti, La madre mediterranea della Sardegna neolitica. Nel volume: A. Moravetti, P.Melis, L. Foddai, E. Alba, La Sardegna Preistorica, Corpora delle antichità della Sardegna, Carlo Delfino editore & C., 2017. ↩︎
  5. A. Moravetti in G. Lilliu, Arte e religione della Sardegna prenuragica, Carlo Delfino editore & C., 1999. ↩︎

Autore

Samuele

Samuele è il fondatore di Indagini e Misteri, blog di antropologia, storia e arte. È laureato in biologia forense e lavora per il Ministero della Cultura. Per diletto studia cose insolite e vetuste, come incerti simbolismi o enigmatici riti apotropaici. Insegue il mistero attraverso l’avventura ma quello, inspiegabilmente, è sempre un passo più in là.

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