Il silenzio trascendente dell’abbazia di Fossanova

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Se non l’eco soffuso di passi che timidi incedono tra le panche e gli inginocchiatoi, null’altro si ode tra le navate dell’Abbazia di Fossanova. Vi è un’atmosfera mistica e potente in questo luogo. Essa permea ogni essenza, trascendente ierofania che supera il limite della comprensione dell’umano. Non esiste parola, né gesto, né gemito che possa esprimere a sufficienza lo stato dell’animo di chi intravede il divino. È il silenzio frastornato della ragione innanzi alla rivelazione, il senso del mistero che travolge e sconvolge sin nelle profondità dell’esistenza.

L’abbazia di Fossanova vide la salita al cielo di San Tommaso d’Aquino, che più di ogni altro uomo aveva dedicato la propria vita a indagare il mistero attraverso la ragione, ma che si era ormai rifugiato in un misterioso e perentorio silenzio.

«Raynalde, non possum… non possum quia omnia quae scripsi videntur mihi palae respectu eorum quae vidi et revelata sunt mihi»

«Reginaldo, non posso… Non posso più. Tutto quello che ho scritto mi sembra paglia in confronto a ciò che ho visto».

Processus, n. 79, 376: le parole di San Tommaso d’Aquino pochi mesi prima di morire presso l’abbazia di Fossanova

Il Doctor Angelicus

San Tommaso d’Aquino nacque a Roccasecca intorno al 1225, e la sua opera scrittoria è oggi considerata un pilastro della teologia cristiana. Figlio dei conti di Aquino, sin dalla giovane età decise di spezzare la volontà paterna che, per tradizione medioevale, era infatti l’ultimogenito, lo voleva destinato a divenire abate di Montecassino. Durante i suoi studi a Napoli nel 1231 presso l’Università fondata da Federico II di Svevia, conobbe i Domenicani e vi entrò a far parte dal 1244.

Gli studi presso i Domenicani

Si trattò di una scelta rivoluzionaria non solo perché essa contestava il desiderio genitoriale, ma soprattutto perché abbracciava un ordine mendicante, idealmente in antitesi con il potere temporale a lui prospettato. Per tale ragione la famiglia decise di rinchiuderlo in una cella del castello di Monte San Giovanni Campano. In realtà non si trattò di una vera e propria prigionia, giacché a Tommaso veniva concesso di intrattenere visite. In ogni caso, il periodo della cella durò un anno durante il quale fu provato nella castità, ma egli incorruttibile dinnanzi alle donne si meritò il titolo di Doctor Angelicus. Rimesso in libertà, in seno ai Domenicani l’aquinate ebbe la possibilità di formarsi come teologo e filosofo.

Celebre è l’episodio in cui il suo maestro a Colonia, Sant’Alberto Magno, lo difese dal nomignolo che i compagni gli avevano affibbiato a causa della stazza e dell’essere taciturno: “il bue muto”. Disse profeticamente il maestro: “io vi dico, quando questo bue muggirà, i suoi muggiti si udranno da un’estremità all’altra della terra”.

San Tommaso fu discepolo di Alberto Magno per quasi cinque anni (1248-1252) e il rapporto divenne così saldo che, non appena papa Innocenzo IV gli offrì la carica di abate di Montecassino, l’aquinate rifiutò senza indugio.

Durante la sua vita, in cui predicò e insegnò in varie parti d’Europa, San Tommaso d’Aquino elaborò numerosissimi scritti, di cui la maggior parte sono giunti sino a noi, mentre pochi altri sono andati perduti. L’opera magna del filosofo è certamente la Summa Theologica, nella quale sono raccolti ed esplicitati i principali enunciati del suo pensiero.

La filosofia di San Tommaso

San Tommaso ha il merito di riuscire a conciliare ragione e fede, rielaborando in ottica cristiana la filosofia di Aristotele. In particolare, secondo il filosofo, la ragione è utile alla fede giacché può dimostrarne i preamboli, spiegarne i dogmi e difenderla dalle eresie. Si può dunque arrivare a vedere Dio tanto attraverso il pensiero filosofico, quanto per mezzo della fede che conduce alla rivelazione. L’uomo, infatti, è compartecipe dello stesso essere di Dio, sebbene ad un grado inferiore, inoltre è per analogia simile a lui. San Tommaso identifica cinque vie a posteriori per raggiungere, attraverso l’intelletto e l’osservazione della natura, il divino.

Le cinque vie

Dio è innanzitutto motore immobile, in quanto colui che ha dato impulso alla prima energia vitale dell’universo. Da essa si propaga tutto il movimento che, trasmettendosi da un ente a un altro, deve necessariamente avere un’origine.

Dio è poi la causa prima di tutte le cose giacché è impossibile che una cosa sia causa di se stessa: se infatti tutte le cause sono concatenate secondo un ordine, come ogni figlio è generato dal proprio padre o un oggetto dal suo creatore, allora deve esservene una per principio originale.

La terza via si basa sulla differenza tra ciò che è necessario e ciò che è possibile. Tutti gli esseri di cui noi abbiamo conoscenza sensibile sono contingenti, possono esistere oppure no. Infatti, se tornassimo abbastanza indietro nel tempo essi non esisterebbero ancora, proprio in quanto possibili. Allora deve esistere Dio, essere necessario da cui il possibile trae origine, altrimenti nulla esisterebbe tuttora.

San Tommaso d’Aquino si sofferma poi sui gradi di perfezione dell’essere. Ogni cosa ha infatti un differente grado: l’uomo è più intelligente degli animali, che a loro volta lo sono più della pietra. Ma se è così, deve esistere un grado di perfezione assoluto dell’essere, oltre il quale non può esservi nulla di più perfetto. Esso corrisponde a Dio.

L’ultima dimostrazione dell’esistenza di Dio per san Tommaso si desume dalla natura finalistica delle cose. Tutto ha uno scopo: le navi servono per navigare, il cibo per nutrirsi, le zanne del lupo per divorare la preda… Così dev’esservi un principio ordinatore intelligente, giacché nulla è fatto a caso.

L’improvviso silenzio

Eppure il Doctor Angelicus non terminò mai di compilare la sua Summa Theologica. Il 6 dicembre 1273 il santo cadde infatti in una profonda estasi mentre celebrava l’Eucaristia nella Cappella di San Nicola, presso il convento di San Domenico Maggiore a Napoli [1]. Bartolomeo da Capua, notaio e testimone durante il processo di canonizzazione, riferisce che San Tommaso “fuit mira mutatione commotus”, fu colpito da una trasformazione mirabile [2].

Da quel momento in poi, l’aquinate si rifiutò misteriosamente di scrivere. A chiunque gli chiedesse spiegazioni, tra questi il suo fidato segretario Reginaldo da Priverno, San Tommaso rispondeva con un laconico “non posso”. E quando le richieste si fecero più insistenti il santo sbottò: “Reginaldo, non posso… non posso più. Tutto quello che ho scritto mi sembra paglia in confronto a ciò che ho visto” [1]. Qualcosa di straordinario dovette profondamente sconvolgere l’aquinate, a tal punto da indurlo a deporre gli strumenti di scrittura. San Tommaso scelse d’improvviso il silenzio, l’assenza del pensiero, proprio lui che aveva posto la ragione a baluardo della cristianità.

La morte e la fama di santo e dottore della Chiesa

Il rifiuto di scrivere si protrasse sino alla morte. Nel 1274 papa Gregorio X convocò il concilio di Lione per tentare una riconciliazione con la Chiesa Ortodossa e invitò san Tommaso, eminente personalità dell’epoca. Il Doctor Angelicus si mise in viaggio verso la città transalpina ma, già provato da mesi di fatica, si ammalò e dovette fermarsi presso l’Abbazia di Fossanova. Qui salì al cielo il 7 marzo del medesimo anno.

Tommaso d’Aquino fu proclamato santo nel 1323. Allorché si obiettò a Giovanni XXII che egli non avesse fatto miracolo alcuno, il pontefice rispose: “quante preposizioni teologiche scrisse, tanti miracoli fece”. L’aquinate fu infine proclamato dottore della chiesa nel 1567 per virtù delle sue enormi digressioni filosofiche e teologiche, che tanto hanno dato alla Chiesa in tutti questi secoli.

Oltre l’indicibile

Il silenzio di San Tommaso fu un fragoroso gesto. Solo attraverso questo ossimoro è possibile comprendere la significazione che ebbe il suo non-scrivere in tutti coloro che lo conoscevano. È attestato dalle testimonianze storiografiche che l’aquinate fosse una persona molto abitudinaria e che da quindici anni almeno, ogni sera, dettava puntualmente ai suoi segretari le riflessioni teologiche e filosofiche che gli erano proprie.

Il silenzio del santo fu forse la consapevolezza improvvisa di non poter esprimere l’indicibile. San Tommaso aveva raggiunto il limite, la soglia di ciò che può essere descritto con le parole; la rivelazione intima del divino si manifestava così oltre il linguaggio, i simboli e le rappresentazioni concettuali. Non si può, infatti, raccontare l’essenza più pura della perfezione, né spiegare l’infinito con la ragione.

L’abbazia di Fossanova

Che cosa di metafisico San Tommaso avesse percepito nella Cappella di San Nicola non lo sapremo mai. Eppure si può in parte intuire quell’improvvisa teofania del silenzio, seppur in un senso di malinconica lontananza, attraverso l’atmosfera mistica dell’Abbazia di Fossanova. Tra le mura del convento il santo spirò nella sua essenza materiale, ma è come se avesse ivi lasciato in dono la contemplazione dell’assoluto. A Fossanova tutto richiama al silenzio. Non vi sono parole, ma sguardi d’intimo amore con il divino che colmano la misura dell’animo, di ciò che umanamente può essere espresso. È questa una dimensione onnipervasiva, che si rispecchia nelle architetture gotiche, nella monumentale spazialità, persino nei simboli nascosti.

Il primitivo monastero benedettino di Fossanova

L’Abbazia di Fossanova s’innalza sul territorio del comune di Priverno, nella pianura Pontina meridionale. La zona fu occupata dai monaci benedettini a partire dal IX secolo. Ivi, infatti, essi fondarono un cenobio e successivamente un monastero dedicato a santo Stefano Protomartire. Gli scavi archeologici hanno messo in evidenza come tale nucleo di edifici ricalcasse la pianta di una preesistente villa romana, e il chiostro era stato eretto sulle strutture del peristilio antico. Del primitivo monastero benedettino, tuttavia, rimangono solo poche tracce giacché, intorno all’anno mille, esso fu ampliato in forme romaniche.

L’avvento dei Cistercensi

I monaci benedettini rimasero a Fossanova fino al 1135, quando il papa Innocenzo II li scacciò dal luogo a causa della lotta per il soglio pontificio con l’antipapa Anacleto II. Di lì a poco, l’abbazia fu consegnata ai Cistercensi di San Bernardo di Chiaravalle, che tanto si era adoperato per il riconoscimento del legittimo pontefice. Essi furono i principali artefici delle architetture odierne, introducendo in Italia il nuovo stile rivoluzionario che si andava affermando in Francia: l’abbazia di Fossanova è un esempio fulgido di quella fase di transizione in cui il gotico si affrancava dal romanico ai primi albori. Essa fu riedificata tra il 1163 e il 1208 [3], e a suo complemento i monaci cistercensi costruirono un canale secondario che, dipartendo dal fiume Amaseno, permetteva di bonificare il territorio dalla palude. La cloaca era detta Fossa Nova, e da tale toponimo deriva l’odierna denominazione.

Il chiostro dell’abbazia di Fossanova

La vita dei Cistercensi si sviluppava tutt’intorno al chiostro, cuore e centro pulsante dell’intera abbazia. Da esso si accedeva all’ampia sala del refettorio con archi a sesto acuto ed elegante scalinata con pulpito, al dormitorio, alla sala capitolare e alla chiesa di Santa Maria. Lungo i corridoi del chiostro i monaci svolgevano l’ufficio delle lettura della sera e le abluzioni, di tanto in tanto scambiavano qualche parola di fraternità.

La struttura architettonica del chiostro si sviluppa su tre lati più antichi, mentre l’ultimo quarto è di matrice cistercense. Alla tipica austerità del romanico si contrappongono, pertanto, le ricche decorazioni gotiche, che si sviluppano attraverso arcate eleganti e gioiose. Le colonne tortili di sostegno sono lisce o scanalate, e forse richiamano idealmente i leggendari pilastri del Tempio di Salomone, Jachin e Boaz. I capitelli scolpiti con fregi fitomorfi e antropomorfi si espandono nello spazio con vibrante armonia. Sul prospetto gotico del chiostro si apre inoltre un padiglione, all’interno di esso una fontana, un tempo zampillante, veniva utilizzata dai monaci per le abluzioni.

La sala capitolare e il Nodo di Salomone

Presso la sala capitolare, cui si accede dal chiostro per mezzo di un ampio portale, e che da esso s’intravede attraverso affascinanti bifore, i monaci leggevano giornalmente un capitolo della regola di San Benedetto. Possenti pilastri a fascio sorreggono la copertura della sala, a crociera con volte costolonate e decorate con ampie modanature.

In un angolo della sala ecco delinearsi l’affresco di un bellissimo Nodo di Salomone. Il simbolo richiama la proverbiale giustizia del re ebraico, come monito di perseguire tale virtù in ogni scelta della vita abbaziale. La sala capitolare, infatti, era il luogo dove si svolgevano le assemblee che avevano il compito di gestire e amministrare ogni aspetto della comunità monastica.

Il Centro Sacro e la Triplice Cinta di Fossanova

La ricerca del divino si esprime, pertanto, a Fossanova anche e soprattutto attraverso i simboli. Essi rimandano a una sfera dell’esistenza che va oltre la natura sensibile delle cose, così permettendo la contemplazione del divino nel silenzio. Non è un caso che sui muretti dell’abbazia si possano osservare alcune simbologie costanti del Medioevo e della sua componente esoterica, come la Triplice Cinta e il Centro Sacro. Ve ne sono differenti esemplari incisi sulla pietra, e del loro significato non si hanno fonti certe, ma soltanto probabili interpretazioni.

Il Centro Sacro

I graffiti del Centro Sacro a Fossanova trasmettono sensazioni di armonia ed equilibrio, linearità e simmetria, perfezione oltre-natura. San Tommaso d’Aquino certamente avrebbe intravisto e riconosciuto in tale simbolo una raffigurazione dell’essenza del divino.

Gli antichi Greci credevano che l’ombelico del mondo si trovasse a Delfi e, presso l’antico tempio di Apollo, indicavano il centro sacro con una pietra dalla forte valenza religiosa, chiamata Omphalos.

Per gli Ebrei il centro sacro era invece il luogo dell’incontro con Dio. Secondo il Libro dell’Esodo, sul Monte Sinai Mosè aveva ricevuto le Tavole della Legge [4], e con esse i comandamenti ch’erano custoditi nell’Arca dell’Alleanza. L’Arca fu infine solennemente collocata nel Sancta Sanctorum del Tempio di Salomone a Gerusalemme [5], divenuto da quel momento centro sacro di tutto l’ebraismo.

Con l’affermarsi del Cristianesimo in Europa il simbolo del Centro Sacro iniziò a connotarsi degli attributi di Dio stesso. Esso non soltanto è il luogo dove Dio dimora, ma è significazione di Dio creatore e fine ultimo di tutte le cose. Il Centro Sacro è la rappresentazione del motore immobile dell’Universo, della causa efficiente di tutto ciò che esiste.

La Triplice Cinta

Sulla medesima scia può essere interpretata la presenza della Triplice Cinta a Fossanova, laddove venga assimilata ad una rappresentazione proprio del Tempio di Salomone. In effetti, il Libro delle Cronache narra come l’edificio sacro fosse composto di due cortili, detti “dei sacerdoti” e “grande corte”, contenuti da tre cinte murarie concentriche [6].

La chiesa di Santa Maria di Fossanova

Nel giugno del 1208 veniva inaugurata la cistercense chiesa di Santa Maria. Essa è la più compiuta espressione delle prime architetture gotiche in Italia. La facciata a salienti, infatti, presenta un accennato verticalismo e introduce al corpo centrale dell’edificio sorretto da contrafforti.

Presso l’ordine inferiore si apre un unico portale centrale, strombato, a sesto acuto. L’arco, leggermente curvilineo, appare sovrastato da un timpano classicheggiante.

Lateralmente si delineano i portali ciechi, presso i quali è ancora possibile osservare la muratura che dava origine a un ampio portico, rimosso già nel XIII secolo. Il prospetto della facciata è dominato da un’enorme rosa circolare, composta da ventiquattro colonnine con archi gotici.

Gli interni, in pieno stile gotico cistercense, sono essenziali ma imponenti. La luce soffusa, che penetra internamente attraverso la rosa, rischiara le tre navate su pianta a croce latina, separate da pilastri a fascio. Sulla crociera si innalza il tiburio a tre piani. impreziosito da bifore e monofore.

Memento mori

L’austerità degli interni risponde a un preciso dettame di vita dei monaci Cistercensi. Tutto nella vita è transitorio, e tutto dev’essere un giorno abbandonato. La preoccupazione dell’uomo dev’essere, pertanto, la mera contemplazione del divino nell’attesa della vita eterna. Non servono sfarzi e apparenze, né la bellezza dell’esteriorità, piuttosto la purezza dell’animo.

È questo l’ammonimento del memento mori dei Cistercensi: ogni uomo deve costantemente avere innanzi agli occhi la consapevolezza della fugacità della vita e dei suoi piaceri. La morte attende infatti ognuno, che sia ricco o che sia povero, che sia re o popolano. A Fossanova tale concetto è straordinariamente concretizzato attraverso la rappresentazione figurativa dei “tre vivi e dei tre morti”. Si tratta, questa, di un’iconografia della morte tipica del Medioevo in cui tre giovani cavalieri incontrano tre scheletri che li ammoniscono dicendo: “ciò che sarete voi noi siamo adesso, chi si scorda di noi scorda se stesso”.

Samuele Corrente Naso

Note

[1] «Quasi raptus et in devotione absorptus multis perfundi lacrymis» (Guglielmo Tocco, Hystoria beati Thomoe Aquinatis).
[2] Bartolomeo da Capua, Processus

[3] Emma Bernini, Carla Campanini, Cristina Casoli, Elisa Bellesia, Nuovo Eikon- Guida alla Storia dell’Arte, Roma-Bari, Editori Laterza, 2012

[4] Esodo 3,1 ss

[5] 1Re capitolo 8

[6] II Cronache 4,9

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