Primitivi a se stessi, l’antropologia ai tempi del Covid-19

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Alcuni eventi della contemporaneità, come l’epidemia da Covid-19, sembrano suggerire che le risposte comportamentali dell’essere umano di fronte al pericolo, o alla percezione del rischio, non siano così progredite come ci si potrebbe aspettare. Negli ultimi due secoli le scoperte scientifiche e tecnologiche hanno dato l’illusione che l’uomo potesse governare e controllare il Mondo a suo piacimento, attraverso un approccio più maturo e razionale di fronte agli eventi della realtà. Ciò nondimeno, ancora oggi esso dimostra di essere primitivo a se stesso.

La recente pandemia di Covid-19, che ha investito l’intero tessuto sociale mondiale, ha rivelato un’insospettata molteplicità di risposte legate a meccanismi culturali ancestrali. Tra queste vi sono il negazionismo; le superstizioni; gli approcci antiscientifici o del-sospetto; la tesi del complotto; le elaborazioni magico-rituali. Alcune indagini condotte su base statistica1 hanno rivelato che, agli esordi della pandemia, solo un italiano su due riteneva il coronavirus Covid-19 un evento naturale. Ancora a novembre 2020, il 30% degli italiani intervistati considerava la minaccia derivante dal Covid-19 come esagerata o fittizia2.

Sulla nozione di “primitivo

La nozione di uomo “primitivo”, nell’accezione comunemente utilizzata in antropologia, deriva da un erroneo pregiudizio. C’est-à-dire, quello di chi studia le origini dell’essere umano ponendosi oggi su un piano più elevato, maggiormente evoluto. Se, infatti, esiste la concezione del primitivismo è perché implicitamente si ammette un superamento dello stesso, attraverso un’infelice lettura “a tappe” della storia dell’umanità. È questa l’eredità del Positivismo e delle sue più radicate tesi evoluzionistiche. A cavallo dell’Ottocento, infatti, maturò l’idea occidentale dell’inarrestabile progresso verso la modernità3. La civiltà sarebbe in un costante cammino verso il miglioramento di sé stessa. Inoltre, Comte predisse che l’essere umano moderno avrebbe raggiunto un grado di evoluzione più elevato, nella sue strutture sociali, nella consapevolezza del mondo e del sé, nella sua intelligenza… rispetto ai suoi antenati “primitivi”.

Il termine “primitivo” deriva dal termine latino primitivus, nell’accezione di primo in ordine di tempo. Darwin individuava nello sviluppo del cervello l’elemento responsabile dell’evoluzione, ritenendo al contempo che i primitivi, come i selvaggi, avessero facoltà cognitive inferiori rispetto all’uomo moderno occidentale. Questa visione a “stadi culturali”, propria anche di Comte e del Positivismo, influenzò il pensiero dei primi antropologi, tra cui in particolare Edward Burnett Tylor4.

La subcreazione

Tutto ciò è vero solo parzialmente. Bisogna qui distinguere due piani concettuali. L’uno in relazione all’essere umano in quanto tale, l’altro relativo alla subcreazione che esso, lungo i secoli, è stato in grado di generare. Semplificando, è necessario fare un distinguo tra ciò che l’uomo è e ciò che l’uomo fa. Se da un lato, infatti, la tecnologia prodotta è divenuta più complessa, lo stesso non si può dire dell’uomo. Esso è, oggi come allora, ancora quel primitivo che gli antropologi cercano di studiare.

Ciò che l’essere umano ha esercitato nel tempo è la mera capacità di adattamento a un habitat che andava modificando, e con cui si relazionava attraverso nuove innovazioni culturali, come la statura eretta, il linguaggio, la scrittura, sino ai moderni devices d’uso quotidiano. Tuttavia, esso non si è mai evoluto nella sua componente più intima e naturale che gli antichi Greci definivano zoe. È questa la dimensione biologica e istintiva primordiale dell’uomo, in contrapposizione con bios, che definisce invece le sue manifestazioni culturali.

“Se siamo in grado di dipingere capolavori, costruire cattedrali e comporre sinfonie, come possiamo pensare di essere paragonati alle altre specie animali? Ci deve essere per forza qualche sbaglio. Noi dobbiamo essere stati messi qui, dagli dèi o da extraterrestri, con un aspetto vagamente simile a quello degli altri animali, in modo che ci potessimo inserire senza problemi nell’ambiente terrestre, ma in realtà siamo al di fuori della biologia. È questo l’errore che mi proponevo di correggere quando scrissi La scimmia nuda.”

Desmond Morris, Oltre la sopravvivenza

L’uomo primitivo che è in noi

Duecentomila anni fa l’essere umano dei primordi viveva immerso in una dimensione naturale fatta di pericoli e contraddistinta da un habitat inospitale. Si pensi alla compresenza degli animali selvatici, talvolta predatori, da cui dovette imparare a difendersi, come la tigre dai denti a sciabola o più recentemente il leone. L’influenza che l’habitat dei primordi ebbe sull’essere umano si può rilevare da una parte nelle risposte fisiologiche e istintive, proprie della sua biologia, e dall’altra nelle sovrascritture culturali che esso ha creato nel tempo. Così, infatti, l’habitat veniva idealizzato attraverso simboli, riti, miti, credenze, affinché incutesse meno timore. La cultura è la dimensione attraverso cui l’uomo trascende l’incertezza dell’esistenza di fronte ai pericoli della natura.

È interessante notare come le risposte comportamentali dell’essere umano di fronte ai pericoli del Mondo odierno, come la pandemia del Covid-19, non possano che essere le medesime.

Il meccanismo del “combatti o fuggi”

I primordiali meccanismi biologici dell’essere umano di risposta all’ambiente primordiale, che vigono ancora immutati in esso, si caratterizzano per il loro tratto istintivo. Essi sono perlopiù regolati da meccanismi fisiologici, i quali si attivano in relazione alla percezione del pericolo o del rischio, come quello del Covid-19, bypassando la razionalità.

Il battito cardiaco incalza, come in uno scalpitio irrequieto di mille cavalli in corsa. Il respiro mostra un affanno insospettabile per un’età così giovane. Certo, la paura è capace di obnubilare ogni affranto della mente, è l‘istinto a prevalere, in questi casi: l’adrenalina si riversa a fiumi sin nei più remoti capillari del corpo umano. I pensieri diventano confusi, mentre lampi d’improvvisa e primordiale razionalità respingono apotropaicamente le ipotesi peggiori. La vista potrebbe vacillare, ma non c’è il tempo d’una redenzione, è necessario affrontare il pericolo incombente. Ma ecco un raggio di sole, esso s’insinua tra le fronde degli alberi, del cortile della scuola, e colpisce sul viso il ragazzo interrogato. Ed è come un ritorno alla consapevolezza: perché l’essere umano reagisce alle prove della vita quotidiana come se ancora dovesse affrontare il leone nella Savana?

Il meccanismo del “combatti o fuggi” ne è un importante esempio. Esso prende avvio dall’amigdala e dall’ipotalamo; coinvolge quindi l’ipofisi che, attraverso la secrezione dell’ormone adrenocorticotropo (ACTH) stimola le ghiandole surrenali a produrre adrenalina. È questa ultima a scatenare tutte le reazioni fisiologiche di risposta al pericolo. Il meccanismo ha l’obiettivo di predisporre fisiologicamente l’essere umano ad affrontare la minaccia incombente. L’aumento del battito cardiaco consente un maggior afflusso di sangue e di energia verso i muscoli, cui consegue un incremento della velocità e della forza; il respiro accelera per una migliore ossigenazione dei tessuti; le pupille si dilatano per focalizzare l’attenzione sul nemico, reale o presunto…

Un tempo troppo breve

Proprio su quest’ultimo concetto è necessario soffermarsi. L’ipotalamo, organo deputato al controllo delle risposte del sistema nervoso autonomo e di quello endocrino, non si è ancora evoluto abbastanza per distinguere una minaccia effettiva  (il leone) da una apparente (l’interrogazione).

I cambiamenti biologici dell’essere umano nell’arco degli ultimi millenni sono stati piuttosto relativi. La più nota e rilevante variazione morfologica che l’uomo ritiene di possedere rispetto ai suoi cugini prossimi, le scimmie antropomorfe, è quella correlata al pollice opponibile. Questa caratteristica è responsabile della nascita delle molteplici manifestazioni culturali dell’essere umano, come le arti figurative, le tecnologie… Essa, tuttavia, secondo uno studio condotto da un gruppo di ricerca dell’Università del Kent5, sarebbe di gran lunga antecedente alla comparsa dell’Homo sapiens, dovendosi attestare a circa ottocentomila anni fa nell’Australopithecus africanus.

Ciò rende l’idea di come i cambiamenti biologici che possono influenzare le espressioni culturali dell’uomo, tra cui le modificazioni genetiche del DNA, richiedano tempi lunghissimi. Per fare un esempio, dalla prime forme di scrittura in poi, circa cinquemila anni fa, il DNA dell’essere umano ha subito variazioni minimali. Si tratta soltanto di alcune brevi mutazioni della sequenza di specifici geni. Alcuni di essi sono codificanti per enzimi responsabili della metabolizzazione dei carboidrati, altri sono coinvolti nella produzione anticorpale per la risposta immunitaria6. L’uomo odierno, in sostanza, è molto più simile rispetto ai suoi antenati di quanto si potrebbe pensare. Potremmo definirlo primitivo a sé stesso.

Le dinamiche di pensiero

Mentre l’habitat cambia sempre più velocemente, il mondo diviene sempre più tecnologico ed iperconnesso, l’Homo sapiens reagisce indistintamente agli stimoli come avrebbe fatto duecentomila anni fa. Ciò è vero per tutte quelle reazioni fisiologiche del corpo che indirizzano il modo di pensare e di agire, trascendendo la razionalità. Particolarmente influenzabile è l’opinione, se susseguente la percezione di un rischio o di un pericolo, come nel caso del Covid-19

“Cerco un centro di gravità permanente
Che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose sulla gente”

[Franco Battiato, ispirandosi alla filosofia di G. I. Gurdjieff]

 In particolare, è proprio la percezione di una minaccia, reale o presunta, a indirizzare le dinamiche di pensiero. Non importa se il pericolo, in realtà, si riveli infondato: è sufficiente il dubbio, l’ambiguità, affinché esso sia percepito come tale. Sarà capitato a molte persone di nutrire paura verso uno sconosciuto incontrato sul far della sera, ancor di più se straniero o di un colore differente della pelle. Eppure quella persona, per quanto se ne sappia, poteva essere molto migliore di noi.

La manipolazione attraverso la percezione del pericolo

Talvolta, questa risposta primordiale e fisiologica dell’essere umano è stata utilizzata per precisi (e riprovevoli) scopi politici. Adolf Hitler, durante i suoi comizi, e ben prima di salire al potere nel 1933, aveva incominciato a insinuare che gli ebrei fossero una minaccia per il popolo tedesco, adducendo che si stessero impadronendo dell’economia. Essi, inoltre, venivano descritti come diversi, usurai; Hitler affermava che gli ebrei riducessero in schiavitù i loro lavoratori. Ai lettori sarà piuttosto chiaro che non fosse affatto così, quale minaccia reale essi potevano mai rappresentare per i tedeschi? Tuttavia, bastò l’ingenerarsi della paura, del sospetto, e pertanto di un’opinione diffusamente negativa, per causare i massacri ben rappresentati nei libri di storia.

Non si pensi che si tratti di uno sparuto esempio, tratto dal passato. Tutt’oggi, ad un politico che si trovi a corto di argomenti, basterà farneticare di  una qualche presunta minaccia per il popolo, asserendo di avere la soluzione. Statisticamente, troverà un gruppo di elettori che lo seguirà. La paura instillata, infatti, anche se infondata, avrà prodotto in essi delle reazioni primordiali e delle modificazioni del pensiero. Ma la minaccia che si andava paventando, è davvero così reale, così attuale?

Le risposte culturali primordiali

L’incapacità di razionalizzare e fronteggiare i pericoli della natura condusse l’uomo dei primordi a ideare una fitta rete di credenze, miti, riti e superstizioni che rendessero l’esistenza più accettabile. Le risposte comportamentali dell’essere umano, di fronte all’incertezza del selvaggio habitat primitivo, erano connesse pertanto a cornici di senso culturali. Il leone, ad esempio, veniva così idealizzato attraverso un simbolo in modo tale che divenisse più familiare e incutesse meno timore. La paura delle malattie veniva affrontata attraverso monili con funzione apotropaica…

I meccanismi comportamentali di tipo culturale-adattativo, al pari degli istinti primordiali, non sono affatto cambiati nell’uomo contemporaneo. Basti vedere la quantità di superstizioni, di credenze magico-religiose, di congetture antiscientifiche che si vanno diffondendo nel mondo. Si pensi ai gatti neri, agli specchi rotti, al sale rovesciato, ma anche alle forme rituali che abitualmente eseguiamo come segno propiziatorio o durante le cerimonie religiose. Nel matrimonio gli invitati usano lanciare il riso verso gli sposi come buon augurio di fecondità; il bouquet di fiori è afferrato dalla donna che a sua volta contrarrà le nozze entro un anno; il vestito della sposa dev’essere bianco come figura della verginità e non può essere preventivamente visionato dal futuro marito; persino suonare il clacson all’arrivo della sposa allontanerebbe idealmente gli spiriti maligni.

Di questi esempi se ne possono riportare a bizzeffe e coinvolgono ogni aspetto della nostra società, non risparmiando neppure le persone che si ritengono più razionali.

Il problema dell’identificazione

Le forme comportamentali legate a superstizione o credenze magico-rituali sono totalmente radicate nell’essenza intima dell’essere umano. Esse implicano il problema della relazione tra l’uomo e il suo habitat in termini di vera identificazione. L’essere umano si sente tanto più presente quanto più è compartecipe e inserito in quel particolare mondo. Se ciò era già complesso ai primordi dell’umanità, in un habitat selvaggio e incontaminato, e verso cui non disponeva di difese naturali innate, oggi lo è ancora di più. Ognuno è inserito in una propria dimensione del reale, composta di mondi propri e sovrascritture culturali, in continuo cambiamento. L’habitat è oggi la città tecnologica, quel contesto urbano o suburbano, quell’azienda, quelle competenze richieste per un lavoro…

Ciò rivela perché le risposte antropologico-culturali di tipo irrazionale siano tanto presenti al tempo odierno. Esse pertengono, in particolare, a differenti momenti della vita di ciascuno: a quelli di passaggio, che implicano un’incertezza esistenziale inconscia e che sono generalmente connessi a riti specifici; alle fasi della crisi, ingenerate nel momento di non-identificazione rispetto ad un habitat mutevole, alla perdita dei propri mondi. Dei primi abbiamo una rilevantissima letteratura, primo autore fra tutti fu Arnold Van Gennep7. Ci soffermeremo, pertanto, sulla nozione della crisi.

Le tecnologie, le innovazioni e le nuove frontiere dell’economia sono fondamentali per il progresso dell’umanità e rendono possibili una molteplicità di interazioni impensabili fino a pochi decenni fa. Esse contribuiscono al miglioramento dello stile di vita e rappresentano un valore aggiunto dell’esistenza, a patto che siano strumenti al servizio dell’uomo e non moderni mezzi di schiavitù. Il mercato del lavoro, ad esempio, richiede oggi competenze sempre più elaborate e complesse; specializzazioni estremamente selettive, una competitività talvolta esasperata. L’uomo contemporaneo lavora per vivere oppure vive per lavorare?

La crisi della presenza dell’uomo contemporaneo

La crisi è la condizione che l’essere umano sperimenta dinanzi alla perdita delle certezze, dei propri mondi, della consapevolezza del sé. Essa si manifesta di fronte ai cambiamenti e ai pericoli che da essi derivano. La crisi è il timore di precipitare in una realtà di vita priva di senso. L’antropologo Ernesto de Martino definì magistralmente il concetto attraverso l’idea di una destorificazione irrelata, cui l’essere umano può rispondere per mezzo di un’astrazione dalla realtà. È questa la funzione della cultura, con i suoi simboli, riti e trascendimenti mitici.

“Il carattere fondamentale della tecnica religiosa sta nel contrapporre a questa destorificazione irrelativa una destorificazione istituzionale del divenire, cioè una destorificazione fermata in un ordine metastorico (mito) col quale si entra in rapporto mediante un ordine metastorico di comportamenti (rito). Con ciò è offerto un orizzonte per entro il quale si compie la ripresa delle possibili alienazioni individuali e la loro riplasmazione nei valori culturali“.

E. De Martino, Morte e pianto ritualeDal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati Boringhieri, Torino 2000

Il concetto della crisi è più che mai attuale. Il continuo mutare della società, in un mondo iperconnesso e competitivo, potrebbe essere una delle cause della destorificazione irrelata nell’essere umano dei tempi odierni. Le scoperte scientifiche, e le conseguenti modificazioni dei modi di vivere, stanno divenendo sempre più rapide. Ciò costringe l’uomo contemporaneo a doversi costantemente adattare ad un habitat fluido (si pensi alle competenze richieste oggi dal mondo del lavoro), con il rischio di sentirsi decontestualizzato rispetto alla realtà che sta vivendo. Esso può andare incontro alla perdita delle radici del proprio mondo soggettivo, sperimentando così la crisi della presenza. Si pensi al contadino, abituato per cinquant’anni della sua vita ai ritmi e alle pratiche agricole, che improvvisamente si ritrovi nel 2021 a dover governare tecnologie nuove e inaspettate. Egli può sperimentare la crisi della presenza, giacché il mondo soggettivo che ha vissuto precedentemente tende a scomparire.

Le risposte antropologiche al Covid-19

Le considerazioni finora enunciate forniscono una valida chiave di lettura per comprendere il diffuso atteggiamento antiscientifico ed irrazionale presente oggi di fronte alla pandemia del Covid-19, in una parte della popolazione. La percezione di un pericolo paventato e filtrato attraverso le tecnologie dell’informazione, in maniera massiva (“infodemia”), può causare a primo acchito l’insorgere di meccanismi comportamentali primordiali, alla maniera del “combatti o fuggi”. Si tratta di un livello di difesa cognitivo inconscio che fa parte della componente biologica dell’uomo, essendone una caratteristica fondamentale.

Questa prima reazione istintiva al pericolo è poi elaborata attraverso dinamiche di pensiero razionale. Tuttavia, se essa perviene da un mondo che non è riconosciuto come proprio, o troppo incerto, la risposta comportamentale segue binari differenti: il pericolo presunto o reale potrebbe ingenerare la crisi. Essa consegue al manifestarsi di un timore nuovo e di un cambiamento che non si è in grado di fronteggiare. La crisi è quindi elaborata, al pari dei nostri antenati primitivi, attraverso la negazione del pericolo in toto, la sua svalutazione, oppure con l’instaurarsi di dinamiche di superstizione o credenze magico-rituali. Quanto descritto potrebbe spiegare il perché così tante persone al giorno d’oggi assumono una risposta comportamentale di rifiuto o sospetto, innanzi alla percezione del rischio correlato alla pandemia del Covid-19.

L’essere umano sta guidando la sua evoluzione verso un paradosso metastorico. Esso è l’unico essere vivente che costantemente ricrea il suo habitat in maniera sempre più alienante, fluida e competitiva. Il rischio è di creare una sorta di gabbia iper-tecnologica in cui esso si trovi rinchiuso, senza accorgersene, con uno smartphone al posto della clava.

Samuele Corrente Naso

Note

  1. Un italiano su 4 crede che il Covid-19 sia un complotto. ↩︎
  2. Lo studio sulla percezione del pericolo da Covid-19 e sulla fiducia relativa al tasso di mortalità del Covid-19. ↩︎
  3. A. Comte, Corso di filosofia positiva, 1830-1842. ↩︎
  4. J. Murray, Primitive Culture: Researches into the Development of Mythology, Philosophy, Religion, Language, Art and Custom, London, 1871. ↩︎
  5. M. M. Skinner et al., Human-like hand use in Australopithecus africanus, Science, 2015. ↩︎
  6. E. Chekalin et al., Changes in Biological Pathways During 6,000 Years of Civilization in Europe, Molecular Biology and Evolution 36 (1), 2019. ↩︎
  7. Arnold van Gennep, Les rites de passage, Paris 1909. ↩︎

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