Il treno avanza, col suo lento e ritmato incedere, lungo i paesaggi della Calabria. Allegre, verdeggianti, a tratti evocative, scorrono le immagini di memorie sempiterne: da un lato s’affacciano le brulle colline, dall’altro si aggettano i finestrini sull’azzurro mare, sulle scogliere imperiture. È un giorno qualunque di una calda estate ma il viaggio, d’improvviso, trascende in una consapevolezza nuova. Il treno pare una dimensione sospesa, un’eterotopia. Seppure in movimento, nulla pare mutare sul serio; persino il tempo sembra disubbidire alle leggi universali, da quanto tempo sono qui? E lo sguardo fisso al di là del vetro ripercorre istanti di vita passati, forse perduti, o desideri profondi, chissà.
Il treno non è mai comodo a sufficienza, ci avete fatto caso? In definitiva, questo è ciò che lo rende speciale: esso è metafora della vita, della dimensione del viaggio. Un ritardo, una corsa alla stazione, un bagaglio chiuso male, un vicino rumoroso… è indubbio, il viaggio incarna l’essenza dell’avventura. Tutto sembra prevedibile, prima di partire; ci si accorge che tutto è aleatorio non appena si decida di farlo. Ma è solo allora che ogni cosa diviene straordinaria! Lo spirito della scoperta, e una dimensione più profonda dell’essere, pervadono l’animo del viaggiatore. Cosa si cela oltre quella collina? Quali nuove prospettive? La mente si abbandona a immagini indefinite che inarrestabili scorrono lungo i binari. Per qualche strana alchimia, improvvisamente, la realtà diviene più accettabile, la dimensione dell’esistenza appare chiara: nulla si può controllare, la vita è precarietà.
Il viaggio e lo stato di natura
Il viaggio ha il potere di ricondurre l’essere umano a uno stato di coscienza più prossimo alla realtà, allo stato di natura. Non sorprenda il ricordare che i nostri antenati, per decine di migliaia di anni, sono stati popoli migratori. La lunga storia dell’essere umano, sin dai suoi albori, è contraddistinta da un lento colonizzare, da una pervasiva dimensione del viaggio. I primi ominidi originarono in Africa, e da lì finirono per conquistare ogni parte del globo.
L’uomo primitivo, al pari degli altri esseri viventi, viveva totalmente immerso nello stato di natura e nei suoi pericoli. Tuttavia, esso percepiva quasi di non essere al posto giusto. Gli animali, infatti, mostrano una perfetta correlazione, determinata biologicamente, rispetto all’habitat in cui vivono. L’orso polare, ad esempio, vive al Polo Nord giacché è contraddistinto dalla presenza di una folta pelliccia. Non si può affermare, invece, che l’uomo abbia un proprio habitat biologico. Esso si è adattato nel tempo a contesti geomorfologici e ambientali estremamente diversi. L’insorgere della cultura, intesa come sovrascrittura del contesto naturale, ha permesso all’essere umano di superare questo svantaggio evolutivo, di colonizzare ogni angolo del globo attraverso le migrazioni, e di giungere sino a oggi.
Oggi come allora
Tale dimensione del viaggio è ancora vivida nell’uomo contemporaneo come in quello dei primordi. È sorprendente che nella società di oggi, così alienante per certi aspetti, vi sia invece un numero molto elevato di persone che amino viaggiare. Il bisogno di vivere nuove esperienze, di visitare posti lontani è insito nella stessa natura dell’essere umano. È talvolta un vero obiettivo di vita, un desiderio profondo, che traspare oggi limpidamente attraverso i social networks e la condivisione globale delle immagini di viaggio.
Per comprendere appieno l’importanza della dimensione del viaggio nell’età contemporanea si pensi all’impatto emotivo, economico e sociale causato dalla pandemia di Covid-19. Il lockdown imposto dai governi, l’impossibilità di uscire di casa, è stato a tratti percepito dall’opinione pubblica come un rischio maggiore dello stesso contagio, sebbene assolutamente e razionalmente necessario.
La seconda natura
L’essere umano, al crescere della tecnologia e al progredire della scienza, ha sempre maggiormente sovrascritto lo stato di natura, attraverso espressioni culturali, sociologiche. Si pensi al concetto della città: essa è un habitat quasi totalmente artificiale, in cui spesso si fatica a rintracciarne le origini di natura. La città non è soltanto un insieme di case e palazzi, è soprattutto uno stato sociale, contraddistinto da un insieme di regole sempre uguali e mai dome, di convenzioni talvolta alienanti.
Se non fai quel lavoro, non guadagni abbastanza; e se non guadagni abbastanza, non puoi consumare; se non puoi consumare, non puoi essere felice; quindi non sei, non sei mai stato. Si tratta di un esempio diabolico, nel senso originale etimologico di divisorio, in quanto causa un’intima spaccatura tra il desiderio di essere dell’uomo, di tornare allo stato di natura, e ciò che la città pretende, impone, anche solo per sopravvivere. È sintomatico come la maggior parte delle persone aspettino le ferie annuali dal lavoro per… poter viaggiare!
Il richiamo delle origini
Sebbene siano indubbi i progressi compiuti dall’essere umano, la sua evoluzione è in realtà racchiusa in un lasso di tempo assai breve. Il genere Homo si è differenziato dall’Australopithecus appena 2,4 milioni di anni fa. Tale considerazione non è banale: esso, infatti, vive in un habitat moderno, iperprotettivo e ipertecnologico, ma i suoi modelli di adattamento sono ancora quelli del Paleolitico, e della sua natura ostile.
È per questa ragione che la prima risposta comportamentale degli esseri umani agli eventi di natura è ancora quella primordiale. L’Homo sapiens odierno, al pari dei suoi predecessori, elabora strategie di adattamento ambientale di tipo simbolico-rituale, con funzione spesso apotropaica. Così, circa 32.000 anni fa l’uomo di Hohlenstein scolpiva la statuetta dell’uomo-leone, per esorcizzare la paura dell’ambiente ostile, in maniera non dissimile da quello contemporaneo che si affida ai propri riti, credenze, superstizioni per il primo colloquio di lavoro.
Vi è, in tal senso, un richiamo primordiale delle origini. L’uomo contemporaneo sente il bisogno istintivo di ricongiungersi alla sua natura più intima, di evadere dalla routine standardizzata della modernità, e dal concetto alienante di città. Il viaggio, la sua precarietà, il venir meno di ripetitivi diritti e doveri ha il potere di pacificare l’animo, di ricollocare l’Homo sapiens al suo posto nel Mondo.
Risposte primordiali
La grave crisi mondiale dovuta alla pandemia da Covid-19 ha mostrato con chiarezza quanto tali meccanismi di elaborazione antropologica siano ancora presenti nella nostra società. Dall’insorgere dell’emergenza sanitaria il virus è di volta in volta sminuito (“è solo una banale influenza”, “ha perso la sua patogenicità”), umanizzato (“se adotteremo questa politica economica, allora esso non avrà effetti”), persino totalmente rinnegato (“non esiste, è un complotto”, “è stato creato in laboratorio”)2.
La sua comparsa, invece, potrebbe essere stata così sconvolgente proprio nella misura in cui esso appartiene pienamente allo stato di natura, sino a esserne vero emblema. Il virus esiste, ma non solo: manifesta la vera condizione del reale, la norma biologica, esso è icona dell’imprevedibilità dell’esistenza. È singolare come tutte le tipologie di approccio esposte presuppongano un tentativo di esorcizzare il pericolo, trasmutandolo in qualcosa di più familiare, similmente alla statuetta dell’uomo-leone, o addirittura negandolo in toto.
La perdita della consapevolezza dello stato di natura
Ciò nondimeno, nessuno dei nostri antenati avrebbe mai negato l’esistenza del leone! Doveva essere ben conscio l’uomo di Hohlenstein che, se fosse uscito incautamente dalla caverna, il leone l’avrebbe divorato. È questa la legge di natura, e non può esisterne altra interpretazione.
Nel tempo che stiamo vivendo, tale verità non sembra così manifesta. Il pericolo della natura, sia esso un virus, un animale feroce o quant’altro, è spesso percepito come fosse distante, irreale, inaccettabile. La natura in sé appare fortemente idealizzata, quasi fosse un mondo paradisiaco, arcadico. In verità la legge di natura non è affatto mutata, in tutti questi millenni: incontrare un leone nel bel mezzo della Savana non è un’esperienza piacevole, al pari dei nostri antenati. La natura è bella e affascinante fino a ché si mantiene a debita distanza, solo se può essere sovrascritta in tutta sicurezza.
Forse che l’uomo contemporaneo stia progressivamente perdendo la consapevolezza dello stato di natura? Le sovrastrutture sociali, tecnologiche, le sicurezze irreali del tempo odierno stanno scavando un solco profondo tra la dimensione biologica e quella di un’idealizzata autodeterminazione. L’uomo contemporaneo vive in un contesto sempre più distaccato dal reale, dallo stato di essenza primordiale; sta forse dimenticando la percezione ultima dell’esistenza, la sua precarietà al Mondo?
Potrebbe essere questa la ratio per la quale un virus sconosciuto, venuto da lontano, appaia come una realtà così inaccettabile da doverne negare l’esistenza, in maniera apotropaica. Il Covid-19, d’altro canto, ha avuto la sola colpa di smascherare false illusioni, vacue sicurezze sociali; ha mostrato crudelmente che c’è ancora un mondo pieno di pericoli, fuori dalla caverna. Sebbene per centinaia di migliaia di anni l’essere umano abbia tentato di governare la natura, essa si mostra ancora indomita, e non perde occasione di ricordarlo.
Il viaggio e la paralisi
Il treno, sibilando incomincia a rallentare. Appena accennata in lontananza si scorge la sagoma d’una stazione. Nel mentre un gabbiano si getta nell’aria dalla sommità di un’aspra scogliera e, librando nell’etere, si esibisce in un’ardita manovra, quasi a sfidare le leggi dell’universo. È questo il punto d’arrivo, o è soltanto un’altra tappa? Il viaggio è indubbiamente metafora della vita. Siamo tutti in viaggio, in un certo senso, e tutti avvolti da quest’aura di precarietà, d’indefinita temporaneità. Proprio come su un treno che sbuffando corre sui binari, l’essere umano si trova trasportato in un mezzo che non gli appartiene: la vita non si può controllare. Quella corsa alla stazione, quella valigia che non si chiude, quel virus, rendono il tutto imprevedibile.
Sta a noi accettare il viaggio e vivere una lunga e affascinante avventura, o precipitare nella paralisi. È questo, infatti, lo stato mentale di rifiuto al cambiamento, di rigetto dell’imprevedibilità, talvolta persino della diversità. Si tratta di analoga condizione a quella descritta dal grande scrittore irlandese James Joyce, nel suo celebre Gente di Dublino. La paura del mutare degli eventi, dell’insondabilità della vita, determina la paralisi della città: le persone spontaneamente rinunciano a vivere davvero, a essere se stesse, preferendo rimanere ancorate a illusorie sicurezze, a un lavoro che non piace, a una condizione personale che non si ha il coraggio di mettere in gioco. Tutto cambia, ma nulla cambia; il tempo scorre ma è vacuo.
Il grande viaggio
Tuttavia, se si accetta il viaggio – il grande viaggio, quello che non necessita di treno alcuno – ogni cosa si ammanta di meraviglia. Tutto è una scoperta, i timori pian piano svaniscono e, guardandosi alle spalle, solo allora ci si rende conto di quanta strada sia stata fatta.
Oltre il vociare animato della gente alla stazione c’è un volto amico, un pasto caldo, o forse un’altra tempesta. Lo zaino è già in spalla, non resta che andare avanti.
Samuele Corrente Naso