La pittura romana e gli arcani affreschi della Villa dei Misteri a Pompei

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La via s’inerpica fieramente, accarezzando sepolcri di un’epoca remota. In lontananza si ode un soffuso vociare di turisti e il sole pare scagliare come saette i suoi raggi verso la città. L’immaginazione corre a tempi perduti, in cui transitavano spediti i carri romani provenienti dal porto e dalla vicina Neapolis. Ormai in lontananza si stagliano i resti di Porta Ercolanese; essa segna quasi un irreale confine oltre il quale si estende la città di Pompei. Le antiche mura ne racchiudono l’essenza e lo spazio eterotopo. Pompeii, infatti, è un’urbe sospesa, reale e illusoria al contempo, luogo simbolico di vita e di morte. La sua dimensione travalica il senso del tempo ed è punto di contatto tra passato e presente, abbraccia il kairos della bellezza imperitura.

Non è forse questo il destino più grandioso cui una città possa ambire, di non soccombere mai all’oblio? Eppure, stride ciò al pensiero che fu un’immane tragedia a determinarlo: l’improvvisa eruzione del Vesuvio (79 d.C.), una pioggia di cenere e lapilli che travolse i bianchi templi, i termopoli, le insulae raffinate.

La Villa dei Misteri

D’improvviso il sentiero si apre in un ampio pianoro agreste. Qui, come d’incanto, si innalza la graziosa Villa dei Misteri, raggiungibile per mezzo di una scala pietrosa che discende a tratti bruscamente.

Circa l’esistenza di una villa in questo luogo, v’erano sospetti almeno sin dal 1909 giacché il vecchio proprietario del terreno, Aurelio Item, vi aveva rinvenuto alcuni manufatti di pregio. L’affidamento degli scavi fu concesso ad Amedeo Maiuri, il quale vi sovrintese negli anni 1929-1930. Nel 1947 l’archeologo dava alle stampe gli straordinari risultati raggiunti: il volume La Villa dei Misteri conteneva in anteprima le immagini degli eccezionali affreschi dell’edificio.

Una sommaria descrizione della Villa dei Misteri

Costruita nel II secolo a.C., la villa d’otium sorgeva al di fuori della cinta muraria, lungo la via detta Superior che ancor oggi si dipana da Via Ercolanese. La villa rurale si presenta con una struttura a pianta quadrata, composta da circa 90 vani, e appare articolata in tre aree magnae. In primis, le aree di servizio e i depositi a nord; a meridione si apre attraverso un doppio porticato con colonne, che consente l’accesso al quartiere rustico e le cucine; infine, l’ambiente più rappresentativo è quello contraddistinto dai vani signorili.

Il settore nobile è provvisto di tablinum, dove l’antico proprietario intratteneva i rapporti con gli ospiti. Esso si proietta verso l’esterno attraverso un’esedra monumentale, affiancata dai giardini con viridarium e alcune aree pensili che si affacciano verso il mare. Più internamente, un ampio atrium consente l’accesso al peristilio del cortile centrale. La stanza più rappresentativa dell’intero complesso è la Sala del Grande Affresco. Qui, al pari di quanto avviene nel tablinum, giacciono alcune delle più rappresentative pitture romane pervenuteci.

I misteri della Villa

Mentre ci si addentra tra i numerosi ambienti della villa, alcuni interrogativi iniziano prepotenti a farsi strada. Le ampie stanze paiono suggerire vivide emozioni di tempi ormai perduti: chi frequentava questi luoghi sfarzosi, chi di tanta beltà si beava al calare del sole, lungo le sinuose coste del Golfo di Napoli?

Differenti sono le ipotesi proposte circa l’originario proprietario della villa d’otium. Il rinvenimento di un anello-sigillo bronzeo sembrerebbe ricondurne la proprietà a una famiglia di mercanti, il cui nome era Istacidi. Il monile, infatti, riporta l’incisione di un liberto o di un custode, tale L. Istacidius Zosimus1. Ciò nondimeno, gli Istacidi potrebbero non essere stati gli unici proprietari; nella zona rustica dall’edificio è stata rinvenuta una statua raffigurante Livia, la moglie dell’imperatore Augusto, oggi conservata all’Antiquarium di Pompei, e vari suppellettili di pregiata fattura. Forse la Villa dei Misteri appartenne a una famiglia agiata, legata da rapporti personali a quella imperiale.

La Villa dei Misteri ha restituito un numero di reperti abbastanza marginale rispetto alle lontane insulae del centro urbano, rendendone difficile l’attribuzione. Tuttavia, proprio la mancanza di oggetti d’uso comune suggerisce che l’edificio fosse in ristrutturazione, e pertanto disabitato, al momento dell’eruzione del Vesuvio, forse a causa di un terremoto occorso qualche anno prima. In ogni caso, è da escludere che i proprietari della Villa dei Misteri fossero di umili origini, soprattutto in ragione della ricchezza degli affreschi presenti nel tablinum e nel triclinium.

Gli affreschi del tablinum

Le pareti del tablinum sono ricoperte di un intenso nero corvino, come un’ombra che si ridesta dal profondo della terra. Dal fondo scuro emergono alcune figure di altissima fattura pittorica, dai bei colori e dai dettagli molto precisi. L’insieme decorativo si avvale di motivi egittizzanti: la fascia superiore e lo zoccolo sono impreziositi da rappresentazioni geometriche e floreali; il corpo principale ospita divinità rappresentate di profilo, tra cui il dio dell’oltretomba Thoth, Iside e alcune sfingi.

La sala del Grande Affresco nella Villa dei Misteri

L’ambiente della villa che, più di tutti, ha la forza di ridestare i sopiti ideali di magnificenza classica è la stanza del Grande Affresco. La sala si apre all’improvviso per mezzo di uno uno stretto vano, che si diparte dal grazioso antro a exedra. L’ambiente, che con ogni probabilità fu adattato a triclinium, ospita dipinti di gran pregio artistico, e parimenti di difficile interpretazione. Una fascia affrescata, con sfondo rosso e racchiusa in un’ideale cornice architettonica, è scandita da dieci riquadri. Le scene, divise da finte lesene, rappresentano forse un antico rituale misterico.

La pittura romana e Pompei

L’importanza delle raffigurazioni del tablinum e del triclinium supera la mera maestria pittorica del loro sconosciuto ideatore. Esse, infatti, consistono forse nella più alta espressione, a oggi pervenutaci, delle arti pittoriche di quel tempo. Non a caso, la pittura romana è classificata dagli studiosi in quattro schemi decorativi denominati giustappunto pompeiani. Gli affreschi di Pompei sono tra i pochi capolavori sopravvissuti, evento eccezionale dovuto all’azione del materiale lavico che ricoprì la città per sei metri d’altezza. Il magma ebbe un’azione tanto distruttiva quanto conservativa, un paradosso che non ha eguali al Mondo.

I quattro stili pompeiani

La pittura romana, come detto, è suddivisa in quattro stili che si differenziano per le seguenti caratteristiche:

– Il Primo Stile Pompeiano (150-80 a.C.) è riconoscibile per la presenza di tre fasce decorative: quella superiore con cornici a stucco aggettante, da cui la denominazione di stile a incrostazione; la fascia centrale a opus quadratum, in genere bicroma con alternanza rosso-nera; la fascia inferiore con zoccolo solitamente di colore giallo.

– Si distingue il Secondo Stile Pompeiano (80-fine I secolo a.C.) per i motivi vegetali e le cornici dipinte per mezzo di illusioni prospettiche a Trompe-l’œil.

– Nel Terzo Stile Pompeiano (15 a.C. – metà I secolo d.C.) la prospettiva si riduce a una bidimensionalità funzionale alla rappresentazione, in quanto dal colore uniforme del piano emergono gli elementi figurativi miniati. Al centro della parete è in genere dipinta un’edicola con scene di vita o soggetti vari.

– Il Quarto Stile Pompeiano (60-79 d.C.) si caratterizza per l’introduzione di architetture di fantasia, attraverso la rivisitazione degli elementi decorativi che contraddistinguevano gli stili precedenti.

Nella Villa dei Misteri, i motivi egittizzanti degli affreschi presso il tablinum suggeriscono un terzo stile pompeiano, mentre la Sala del Grande Affresco è ascrivibile al secondo stile per la presenza di illusioni prospettiche.

La Villa dei Misteri e gli affreschi del Triclinium

Le scene affrescate del triclinio, alla maniera greca, racchiudono un significato enigmatico e affascinante, legato a un rito d’iniziazione ai misteri dionisiaci. Un corposo rosso porpora, distribuito lungo le tre pareti della stanza, costituisce lo sfondo ideale di alcuni personaggi della vita reale o della mitologia, a grandezza naturale. La corretta lettura dell’opera è complicata dall’incerto stato di conservazione di alcuni tratti e, in particolare, dal fatto la sequenza scenica non segua un ordine temporale.

Scena prima: la preparazione al rito

La prima scena è dominata da una giovane fanciulla, seduta nell’atto di acconciarsi i capelli, mentre un giovane cupido le regge lo specchio. Una figura di donna più anziana sembra aiutarla nella preparazione.

La fanciulla, con ogni probabilità, si sta agghindando per essere iniziata al rito misterico. E il fatto che si tratti di una donna suggerisce che si tratti di un rituale legato al culto di Dioniso.

Dioniso era il dio greco della vegetazione, dell’ebbrezza e dell’estasi. Egli incarnava la dimensione zoé dell’umanità, la natura primordiale e selvaggia. Tale divinità, ch’era chiamata Bacco tra i Romani, veniva raffigurata come androgina e vestita di pelli animali. Nella mitologia, Dioniso era accompagnato da un corteo composto da donne sacerdotesse chiamate Menadi, animali selvatici, Satiri e Sileni. Il culto di Dioniso prevedeva così l’inscenamento di un corteo, principalmente femminile, detto Tiaso, che riproduceva quello mitologico. Le Baccanti, ossia le iniziate al culto, personificavano le Menadi e ne ripercorrevano le gesta per mezzo di un ebbro furore. Il mito, infatti, narrava che le Menadi, figlie del re Menio, fossero state indotte da Dioniso alla follia: perdendo la dimensione dell’umano, si erano abbandonate al consumo di animali crudi e agli infanticidi2. Da quel momento girovagavano vestite di pelli selvatiche, arrancando per mezzo di un bastone avvolto di edera, il tirso.

Le consacrazioni femminili al culto dionisiaco dovevano, in qualche misura, mimare tale vicenda. Una piccola componente maschile del corteo, invece, aveva il compito di inscenare i sileni e i satiri, divinità rispettivamente della fertilità e della vendemmia.

Scena seconda: la padrona di casa

In un angolo della stanza è raffigurata la padrona di casa, accomodata, che assiste al rito. Ciò è dovuto, probabilmente, al fatto che tale donna fosse ella stessa un’iniziata al culto di Dioniso.

Scena terza: la catechesi

La scena mostra la proclamazione di testi sacri connessi al rito. Al centro, una sacerdotessa assiste seduta alla lettura da parte di un fanciullo nudo, da taluni identificato come lo stesso giovane Dioniso. L’iniziata al culto appare qui sulla sinistra all’atto dell’ascolto, e sulla destra, una volta istruita, trasportare i medesimi testi.

La donna è definita anche sposa giacché la finalità ultima del rito era l’unione in pienezza con Dioniso, una sorta di matrimonio mistico. Ciò avrebbe consentito il raggiungimento della condizione più essenzialmente naturale, la totale liberazione dalle convenzioni. I culti dionisiaci raffiguravano, in sostanza, un temporaneo sovvertimento dell’ordine sociale e morale, una finzione che permetteva a ognuno di essere al di fuori di sé stesso. Non a caso, è proprio nei culti dionisiaci che gli studiosi intravedono la nascita del teatro, anticamente inscenato per mezzo della tragedia. Lo stesso Dioniso era associato alla maschera, simbolo della sua incerta e perturbante natura.

Scena quarta: la purificazione

Una sacerdotessa, seduta di spalle, sta officiando un rito di purificazione. Sulla destra vi è la raffigurazione di un sileno che suona la lira.

Il bagno rituale, nell’antica Grecia, era una pratica preparatoria al primo rapporto sessuale. La fanciulla a sinistra sembra coprire per pudore qualcosa con un telo; quella a destra versa dell’acqua su un ramo di mirto. Il mirto era considerato la pianta connessa alla fertilità per eccellenza. Il mito narra che Dioniso ne aveva lasciato una pianta nell’Ade, al fine di liberare sua madre Semele.

Scena quinta: l’allattamento del capretto

Due satiri, un maschio con un flauto di Pan, e una femmina che allatta un capretto, siedono alla destra dell’iniziata. Ella, in un impeto di spavento, solleva il mantello, forse a causa della scena rappresentata sulla parete di fronte (vedi scena nona).

Scena sesta: la divinazione del sileno

La scena è caratterizzata dalla presenza di due satiri, l’uno mentre solleva una maschera teatrale dionisiaca, l’altro nel frangente di specchiarsi all’interno di un vaso. Un vecchio sileno, infatti, sorregge l’anfora per la catottromanzia, la pratica divinatoria di eventi passati e futuri per mezzo di uno specchio.

Scena settima: Arianna e Dioniso

Il significato simbolico del rito è sintetizzato dalla presenza di Dioniso, steso tra le braccia di una figura femminile. Quest’ultima potrebbe essere Arianna, che sposò la divinità dopo che Teseo l’aveva abbandonata a Nasso. Tuttavia, il cattivo stato di conservazione dell’intonaco rende difficile la corretta identificazione.

L’unione tra Dioniso e Arianna è figurazione del raggiungimento della perfetta felicità sovra-umana cui aspirano le fanciulle iniziate al culto. In primo piano si può notare il tirso, il bastone sacro delle Baccanti.

Scena ottava: il rito della fertilità

Il momento cardine del rito dionisiaco è il rito della fertilità. Una donna inginocchiata è in procinto di rimuovere un drappo viola, e così rivelare il contenuto della cesta mistica, la quale simboleggia l’oggetto della fertilità maschile. La pratica corrispondeva al “risveglio di Dioniso” attraverso il richiamo ai suoi attributi più selvaggi.

La figura alata sulla destra appartiene, invece, alla scena successiva.

Scena nona: la flagellazione

La donna alata è Teleté, figlia di Dioniso e Nikaia. Ella sta sferrando con forza un flagello verso la schiena scoperta dell’inizianda, la quale viene consolata da un’amica.

Si tratta dell’ultimo atto del rito che, attraverso la sofferenza, porta idealmente alla definitiva unione con la divinità. Lo stesso termine Taleté significa “iniziazione”, ossia indica il compimento della cerimonia.

Scena decima: i festeggiamenti a conclusione del rituale

Al termine del rito possono finalmente iniziare i festeggiamenti. L’inizianda (a sinistra nella precedente immagine) balla nuda al ritmo di una musica tribale, che lei stessa contribuisce a originare attraverso il suono di cembali. Una sacerdotessa le mostra il tirso, segno che l’iniziazione è compiuta.

La Villa dei Misteri, conclusioni

La raffigurazione del rito dionisiaco a Pompei rivela come esso fosse ben conosciuto in città, ed è possibile che venisse officiato in buona parte dell’Impero romano. Così attestano, infatti, gli storici latini Livio e Tacito, i quali descrivono le cerimonie che si svolgevano a Roma3. Secondo le fonti, esse erano compiute congiuntamente da matrone e da uomini, e assumevano il carattere di veri e propri rituali orgiastici. Livio testimonia come i culti sarebbero stati importati a Roma proprio dalla Campania.

Forse a causa della promiscuità dei rapporti, il Senato si vide costretto a proibirne lo svolgimento nel 186 a.C.4; i riti dionisiaci furono quindi ripristinati da Cesare sotto forma meramente simbolica. Potrebbe essere questa la cerimonia rappresentata a Pompei, che appare lontana dall’originale rituale greco, così violento e sfrenato da scandalizzare Roma.

Samuele Corrente Naso

Mappa dei luoghi

Note

  1. E. Chiavoni, P. Paolini, Metodi e tecniche integrate di rilevamento per la realizzazione di modelli virtuali dell’architettura della città, Roma, Gangemi Editore, 2004. ↩︎
  2. Antonino Liberale, Le metamorfosi, II secolo d.C. ↩︎
  3. Livio, Ab urbe condita, XXXIX, 8–18; Tacito, Annales, XI. ↩︎
  4. J. Pailler, Bacchanalia: la répression de 186 av. J.-C. à Rome et en Italie. Vestiges, images, tradition, Roma, École française de Rome, 1988. ↩︎

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