La Cappella di Teodolinda e la Corona Ferrea di Monza

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È il 22 gennaio 627, la regina dei Longobardi Teodolinda è appena spirata. La donna viene sepolta all’interno della Basilica di San Giovanni a Monza, città a lei carissima, accanto alla tomba del marito Agilulfo. Qui, infatti, ella aveva fatto costruire un primitivo tempio dedicato a San Giovanni Battista (595-600) che, secondo la tradizione della città, era stato ispirato direttamente da Dio.

La narrativa mitica [1] riferisce che Teodolinda, al riposo sotto l’ombra di un’alta quercia, avrebbe ricevuto la visita dello Spirito Santo, nelle sembianze di una bianca colomba. Quegli le avrebbe chiesto di costruire una chiesa modo (qui), e la Regina, alla manieta della vergine Maria, avrebbe semplicemente risposto etiam (sì). Dalla combinazione di queste due parole sarebbe nato il toponimo Modoezia, con il quale gli antichi indicavano l’odierna città di Monza. Certamente, tale tradizione postuma, mitico-cristiana, vuol riconoscere a Teodolinda i meriti di aver convertito l’ariano popolo longobardo al cattolicesimo.

Teodolinda concepì il suo duomo, edificio sacro e rappresentativo di un intero popolo, come una meraviglia. I sovrani adornarono il tempio di preziosissime oreficerie che andarono via via aumentando in numero e valore, sino a costituire un vero tesoro. Alla già cospicua collezione di ori longobardi, di altissima fattura, si aggiunsero doni provenienti da ogni dove, persino dal soglio pontificio di Gregorio Magno (603). Da quel momento, la sorte del cosiddetto Tesoro del Duomo sarà indissolubilmente legata a quella dell’intera città di Monza.

Teodolinda, una scelta straordinaria

Teodolinda ebbe una vita tanto straordinaria quanto avventurosa.  Donna di grande spessore umano e culturale si era trovata improvvisamente a governare il bellicoso popolo dei Longobardi alla morte di suo marito Autari. Certamente, la prematura scomparsa dell’amato sovrano doveva aver gettato nello sconforto l’intera nazione. Né tanto meno Teodolinda poteva dirsi preparata a guidare un esercito, fattispecie che richiedeva competenze militari e abilità politiche. Furono questi i motivi che spinsero la Regina a cedere la corona, in seconde nozze, ad Agilulfo, un nobile longobardo lontano parente.

Il nuovo matrimonio fu celebrato a Lomello nel 590 e consentì ai Longobardi di ottenere una continuità di propositi politici, nonché il perdurare delle buone strategie di difesa del Regno. È lo storico del VIII secolo Paolo Diacono, nella sua “Historia Langobardorum” a descrivere il primo incontro tra i due sposi, seppur in maniera piuttosto romanzata: “Ma, dato che il duca aveva baciato la sua mano nel ricevere la coppa, ella, arrossendo con un sorriso, osservò che non doveva baciarle la mano chi doveva darle un bacio sulla bocca. Poi, alzatolo per dargli il bacio, gli parlò del matrimonio con lei e della dignità del trono” [2].

Teodolinda, così, fu protagonista di un grande gesto di amore e di umiltà, non tanto verso Agilulfo, ma verso lo stesso popolo dei Longobardi. Si può qui rinvenire la ragione di una sovrana tanto amata, le cui gesta ricorreranno come epici racconti lungo tutto il susseguirsi  della storia.

Una nuova stagione architettonica

È necessario, a questo punto, fare un salto nella storia. Occorre, soltanto per il momento, mettere in un cassetto la vicenda di Teodolinda, come espressione di un passato mitico e lontano: ritornerà tra gli intrecci del tempo fra pochissimo.

Nell’anno giubilare del Milletrecento  la città di Monza stava appena incominciando la costruzione di un nuovo duomo. Il vecchio edificio, infatti, non era più sufficiente per le ambizioni della città che si andava espandendo. Si riteneva necessario innalzare una nuova struttura che fungesse da simbolo del potere cittadino, e che si riallacciasse fortemente con la preesistente tradizione. Si decise, pertanto, di riedificare il Duomo sulle antiche vestigia dell’epoca longobarda, quasi sovrascrivendole totalmente. Promotori di questa nuova stagione architettonica furono i milanesi Visconti, da pochi lustri giunti al potere nella regione.

Il nuovo edificio assunse dapprima motivi assai sobri, mimando la coeva architettura francescana, fatta eccezione per lo sfarzoso paliotto argenteo di Borgino dal Pozzo (1350).

Intorno al 1360 fu invece ancora trasformato, virando verso gli appariscenti stilemi gotici che ancora permangono nella struttura. Protomagister di questa elaborata fase fu Matteo dei Maestri Campionesi.  A lui si deve l’edificazione della mirabile facciata, nonché delle eleganti cappelle lungo le navate.

Il Duomo di Monza

Il Duomo appare oggi disposto su pianta a croce latina, con tre navate. La facciata è a salienti, con guglie gotiche ed edicole sommitali, dalla marcata bicromia dovuta all’alternanza di filari di marmo bianchi e neri. Spicca particolarmente l’ampio rosone, inscritto in una cornice quadrangolare. Un alto protiro avvolge il portale d’ingresso, sul quale s’innalza la statua del protettore San Giovanni Battista. Appartiene, invece all’età della controriforma il rifacimento del campanile, opera dell’architetto Pellegrino Tibaldi.

Alla fedele conservazione degli esterni gotici della facciata, fa da contraltare il pesante rimaneggiamento manierista e barocco degli interni.

Pochissimo, pertanto, è sopravvissuto dell’originale decorazione pittorica. Unica, straordinaria, eccezione è rappresentata dagli affreschi della famiglia Zavattari, custoditi all’interno di una sola cappella, detta di Teodolinda. E’ il momento di ricongiungere i fili della storia.

La Cappella di Teodolinda e un delicato passaggio dinastico

Il Millequattrocento fu un secolo di enormi cambiamenti. In campo artistico il rifiorire di canoni stilistici classicheggianti condusse al Rinascimento, mentre l’umanesimo introdusse una nuova visione dell’uomo e del  Mondo. Il Quattrocento segnò gli ultimi sussulti di un Medioevo ormai al limitare, nell’accezione di un contesto culturale che si avviava al suo tramonto.  Ciò nondimeno, parte di quel mondo che andava innovandosi era ancora legato alle antiche tradizioni. S’intravede il rifiorire del gotico, ad esempio, definito qui internazionale o cortese, tanto era legato alle corti nobiliari dell’Europa. Tra queste, i Visconti di Milano ebbero ancora un ruolo di prim’ordine. Essi, infatti, figuravano tra i più accesi promulgatori del preesistente retaggio gotico, commissionando eccezionali cicli di affreschi e monumentali costruzioni. Si pensi, ad esempio, al Duomo di Milano (1386) o alla Certosa di Pavia (1396), commissionati per volere di Gian Galeazzo Visconti.

La famiglia nobiliare del Biscione pareva destinata a governare Milano per molti secoli ancora. E mai avrebbero potuto immaginare i Visconti che, al pari dell’amato stile gotico, molto presto anche loro sarebbero potuti decadere.

La continuità viscontea minacciata

Pertanto, quando Filippo Maria Visconti salì al potere, non si aspettava che la stessa continuità del suo casato fosse in pericolo. Egli, uomo dalla spiccata intelligenza ma piuttosto riservato,  dovette sperimentare l’amarezza di ritrovarsi in vecchiaia senza eredi maschi. Dai suoi due matrimoni, con Beatrice di Lascaris prima e Maria di Savoia poi, non aveva infatti avuto alcun figlio. Una sola erede, Bianca Maria, era stata invece generata attraverso una relazione illegittima con la nobildonna Agnese del Maino.

Ciò, di fatto,  interrompeva la linea di successione maschile della corona del Ducato.  Filippo dovette riconoscere come erede Bianca Maria: se la figlia si fosse sposata e avesse generato un maschio, quest’ultimo avrebbe potuto garantire la continuità dinastica. Nel 1441, pertanto, Bianca convolò a nozze con Francesco Sforza; soltanto tre anni più tardi ella diede alla luce il tanto atteso erede maschile, Galeazzo Maria.

Bianca Maria come Teodolinda

La figura di Bianca Maria pareva effettivamente ricalcare un racconto epico di altri tempi, quello della regina Teodolinda. Quest’ultima, in tal senso, rappresentava quell’illustre precedente che conferiva alla vicenda della successione dinastica viscontea un’aura di sacralità. Bianca Maria pareva incarnare pienamente lo spirito della sovrana longobarda, sebbene in tempi e contesti diversissimi.

È questo il substrato storico che sottende e conduce alla decorazione del ciclo pittorico di maggior prestigio all’interno del Duomo. Tra il 1441 e il 1446 la cappella terminale della navata sinistra, infatti, è riaffrescata con 45 scene dedicate alla vita della regina Teodolinda.

La Cappella di Teodolinda

Il committente della Cappella di Teodolinda non è noto. Sebbene si possa ipotizzare che si tratti di Filippo Maria Visconti, la vicenda è in realtà assai più intricata. Il sovrano, dalle cronache dell’epoca, non pareva entusiasta del genero Francesco Sforza, tanto da aver designato come erede Alfonso d’Aragona.  Probabilmente, gli affreschi sono, al contrario, espressione di una committenza locale, la quale sperava nella successione interna. La Cappella di Teodolinda è quindi un eccezionale omaggio alla sovrana longobarda, fondatrice del primitivo Duomo, e una vivida testimonianza del passaggio dinastico visconteo.

Il ciclo di affreschi fu commissionato ad una bottega tardo-gotica assai in voga nel Quattrocento lombardo, quella della famiglia Zavattari.

Gli Zavattari raffigurano con maestria la narrazione epica della vita di Teodolinda, tratta dall’Historia Langobardorum del cronista Paolo Diacono e dalla Chronicon Modoetiense di Bonincontro Morigia. Le 45 scene  ad affresco, nonché tempera a secco, sono distribuite su cinque differenti registri e appaiono splendidamente ornate con rifiniture a rilievo di metalli preziosi, in particolare oro e argento. La tecnica utilizzata fa rassomigliare la Cappella di Teodolinda più ad un prezioso codice miniato che ad una pittura parietale. Oggigiorno gran parte delle decorazioni in metallo appaiono ossidate, assumendo il tipico nerastro, ma la meraviglia dei visitatori dell’epoca doveva essere enorme dinanzi a tutto quello splendore.

Descrizione delle scene

Ben 28 scene raffigurano banchetti nuziali, in riferimento ai due matrimoni che Teodolinda ebbe in vita. Non si tratta di un fattore casuale, tale particolarità intende suggerire l’importanza delle nozze di Bianca Maria Visconti con Francesco Sforza.

I primi 23 episodi raccontano della storia d’amore tra Teodolinda e Autari, fino alla morte di quest’ultimo; dal numero 24 al 31 sono invece narrate le nozze con Agilulfo. Da questo punto in poi, il ciclo delle storie di Teodolinda pare avere uno stacco stilistico ed essere stato commissionato in un secondo momento. Viene infatti introdotto il racconto della fondazione mitica del Duomo ad opera della regina stessa. La costruzione è ammantata di una sorta di protezione divina: finché i Longobardi si prenderanno cura dell’edificio, San Giovanni proteggerà tale popolo dai suoi nemici. Le ultime scene, dalla 41 alla 45, pertanto, insistono sul fallito tentativo dell’imperatore Costante di conquistare il regno.

La Corona Ferrea e la Tomba di Teodolinda

La Cappella di Teodolinda come oggi la conosciamo è stata rimaneggiata alla fine dell’800. In questo periodo, infatti, re Umberto I commissionò la realizzazione di un altare reliquiario che dovesse contenere il manufatto più prezioso del Tesoro del Duomo, la Corona Ferrea. Contestualmente, l’architetto Luca Beltrami collocò il sarcofago della regina Teodolinda all’interno della stessa cappella.

La Corona Ferrea

La Corona Ferrea è certamente il più importante manufatto, ad oggi pervenutoci, dell’epoca longobarda. La sua storia millenaria assume un valore mistico giacché la tradizione vuole che sia stata in parte realizzata con uno dei chiodi della croce di Cristo. Questa doppia valenza ha inevitabilmente influenzato tutta la sua vicenda, e quella di interi popoli. La Corona Ferrea veniva infatti utilizzata per l’incoronazione dei re d’Italia. In particolare, gli imperatori del Sacro Romano Impero dovevano conquistare tre corone: la già citata corona di ferro, la corona d’argento di Aquisgrana e la corona d’oro conferita direttamente dal Papa a Roma. Federico Barbarossa, ad esempio, ricevette la Corona Ferrea nel 1155 a Pavia, presso la Basilica di San Michele.

Perché corona di ferro?

A prima vista ciò che colpisce i visitatori è che la Corona Ferrea tutto sembra fuorché di ferro. Essa è infatti composta da sei piastre d’oro, finemente decorate con gemme preziose: zaffiri, ametiste e granati. L’aggettivo ferreo deriva invece dalla presenza di un anello metallico nella parte interna, di circa 15 cm di diametro.

Secondo la tradizione cristiana, riferita dal vescovo di Milano Sant’Ambrogio durante il funerale dell’imperatore Teodosio nel 384 [3], questo cerchio di ferro sarebbe stato ottenuto fondendo uno dei chiodi della crocifissione di Cristo. Il Santo riferisce che tale reliquia sarebbe stata rinvenuta dalla madre dell’imperatore Costantino, Sant’Elena, nel 326. Ella avrebbe poi inserito il ferro ricavatone in un elmo-diadema del figlio. Questo, infine, sarebbe stato condotto a Milano dall’imperatore Teodosio, che ivi risiedeva.

In effetti, alcune raffigurazioni del diadema che Costantino utilizzava, su medaglioni paleocristiani, sembrerebbero assomigliare proprio alla Corona Ferrea.

La Corona di Ferro a Monza

Non è noto quando la corona sia giunta a Monza. Un’ipotesi accreditata è che essa fosse custodita inizialmente presso la Basilica di Sant’Ambrogio a Milano, e che sia stata traslata in Brianza per volere dell’arcivescovo Ariberto da Intimiano [5]. È quest’ultimo a riferire, inoltre, del potere miracoloso della reliquia, giacché egli assicura di come essa abbia lenito alcune sue sofferenze corporali. In alternativa, la Corona potrebbe essere stata portata a Costantinopoli dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, e soltanto in seguito traslata a Monza da Teodorico il Grande. Qui, infatti, il re d’Italia aveva la sua residenza estiva.

Studi recenti e ipotesi sulla Corona

In verità, alcuni recenti studi hanno dimostrato che la lamina interna ad anello è di argento. Si è ipotizzato, pertanto, che il metallo del Sacro Chiodo costituisse due archetti di ferro, i quali avevano la funzione di fissare la corona all’elmo di Costantino. In effetti, sulla Corona Ferrea sono presenti dei fori che potrebbero essere compatibili con tale ricostruzione. Essi, inoltre, rilevano la presenza di ossidazione ferrea, vale a dire ruggine.

Non è chiaro dove si trovino gli archetti, e se ancora esistano, giacché la corona è stata nel tempo pesantemente rimaneggiata. Ad esempio, è certo che Teodorico aggiunse numerose pietre; inoltre, il cimelio possedeva in origine otto piastre, le quali furono ridotte a sei durante il 1300. In effetti la corona, dopo questo lasso temporale, appare nelle raffigurazioni più stretta e inadatta a cingere la testa di un uomo. Secondo alcuni studiosi, nel 1345 fu l’orafo Antellotto Bracciforte ad aggiustare il manufatto, che aveva perduto due piastre, con l’aggiunta della lamina argentea.

Una possibile datazione scientifica della Corona

Le fonti storiografiche concernenti la Corona Ferrea sono piuttosto abbondanti. Tuttavia, si concentrano a partire dal suo effettivo utilizzo come diadema regale. Poco o nulla si conosce invece delle sue origini. Recentemente il manufatto è stato sottoposto ad una datazione tramite il metodo del carbonio 14 [4]. Le analisi hanno restituito una datazione ambivalente: alcune elementi della corona sono riferibili al V-VI secolo, altri ad un periodo compreso tra il VII e il X secolo. È probabile pertanto che qualcuno abbia rimaneggiato il manufatto in epoca carolingia. In particolare, si è ipotizzato che, in occasione dell’incoronazione del figlio di Carlo Magno, Pipino, sia stato condotto un restauro delle piastre.

Il culto della Corona Ferrea, da San Carlo Borromeo a Napoleone

Dopo una breve parentesi in cui fu portata ad Avignone, durante la crociata papale contro i Visconti, la Corona Ferrea ritornò nuovamente a Monza. Qui divenne presto oggetto di una sentita devozione popolare. Il riconoscimento ufficiale di reliquia avvenne nel corso del 1576 ad opera di San Carlo Borromeo. Tuttavia, la venerazione della corona, che è condotta in processione la terza domenica di settembre lungo le vie della città, venne vincolata alla condizione che lo stesso avvenisse anche per un altro Sacro Chiodo, quello custodito presso il Duomo di Milano.

La Corona venne poi utilizzata da Napoleone Bonaparte, il quale il 26 maggio del 1805 si autoincoronò imperatore, esclamando la celebre frase: “Dio me l’ha data, guai a chi la tocca!”.

Samuele Corrente Naso

Note

[1] Chronicon Modoetiense, Bonincontro Morigia

[2] Storia dei Longobardi, Paolo Diacono, Edizioni Studio Tesi, 1990.

[3] Orazione funebre De obitu Teodosii, Sant’Ambrogio.

[4] La Corona Ferrea, C. Bertelli, Ginevra-Milano, Skira, 2017.

[5] La Corona Ferrea: corona o reliquia?, in Studi Monzesi, C. Bertelli, 2002.

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