La Necropoli di Monsorino sorge in un’area boschiva del Parco del Ticino, composta perlopiù di castagneti eleganti e fitti querceti, nei pressi di Golasecca. Vi si giunge percorrendo un sentiero incerto, a tratti selvaggio, che quasi pare un retaggio di evi primordiali, di epoche remote del peregrinare umano. Il bosco possiede qui i tratti di un luogo d’elezione, d’importanza conoscitiva inestimabile; esso, come uno scrigno di verde fogliame, custodisce testimonianze vivide del passaggio di popoli e culture.
La cultura di Golasecca
Ivi, infatti, furono stanziati tra il IX e il VI secolo a.C. gruppi di uomini contraddistinti da una facies culturale comune, detta golasecchiana. Le origini della cultura di Golasecca sono da ricercarsi negli sviluppi di preesistenti popolazioni della tarda età del bronzo (culture di Canegrate e Proto-Golasecca), già insediate nell’area lombarda. Si trattò di un’evoluzione culturale graduale, con ogni probabilità segnata dalle contaminazione con genti provenienti da oltralpe. L’età del ferro fu, infatti, segnata dalla migrazione, lenta e costante, di differenti popolazioni celtiche verso l’Italia. Il cambiare delle condizioni climatiche, le quali volgevano verso un generale abbassamento delle temperature, spinse quelle genti a ricercare luoghi più caldi e ospitali.
È in questo contesto che si sviluppano le caratterizzazioni culturali proprie di Golasecca. La posizione geo-climatica favorevole, peraltro nelle vicinanze del fiume Ticino e del Lago Maggiore, fecero sì che le popolazioni ivi stanziate fungessero da ponte di collegamento tra la penisola italica e l’Europa. Ciò appare evidente dai numerosi reperti riesumati, come vasi greci ed etruschi, relativi a popoli sorprendentemente lontani. Si tratta di testimonianze di un commercio fiorente, comprovato dalla ricchezza dei corredi funebri rinvenuti, oltre che a Golasecca, presso Como.
La Necropoli di Monsorino
Particolarmente rilevante è lo sviluppo di centri abitativi complessi a partire dal VI secolo a.C., di cui tuttavia permangono testimonianze scarne. I materiali da costruzione utilizzati dai golasecchiani, in special modo per le abitazioni, erano facilmente soggetti a deperimento, fattore che non ci consente oggi di individuarne a pieno le caratteristiche. Si ipotizza, tuttavia, che esse fossero edificate per mezzo di pali in legno, dapprima conficcati nel terreno, poi – dal VII secolo a.C – coadiuvati da fondazioni circolari in pietra, a secco. Le pareti erano probabilmente rivestite con un fitto intreccio di rami e argilla; i tetti con strati di paglia e di corteccia.
È probabile, pertanto, che anche nelle immediate vicinanze della necropoli del Monsorino sorgessero insediamenti protourbani di rilievo. Tale constatazione proviene dall’approfondito esame delle sole rimanenze archeologiche esplorabili. Sono queste rappresentate dai variegati tumuli in pietra custoditi nell’area. Essi sono definiti impropriamente cromlech alla maniera delle costruzioni megalitiche di stampo celtico europeo. La scelta della denominazione gallica non deve sorprendere, giacché la cultura di Golasecca finì per uniformarsi proprio a quella di La Tène in seguito alle contaminazioni culturali dei popoli cisalpini (V-IV secolo a.C).
I “cromlech” di Golasecca
Ciò che conosciamo della cultura di Golasecca è sostanzialmente dovuto al rinvenimento di caratteristiche necropoli, con sepolture singole o multiple, a tumulo. A Golasecca se ne se ne possono visionare cinque, di cui tre in forma circolare e due a camera rettangolare. Tali sepolture sono caratterizzate dalla presenza di caratteristici allineamenti in pietra, con funzione di segnacoli, che ricordano i cromlech megalitici celtici.
Il primo a individuare la necropoli come area di insediamento di una cultura propria di Golasecca fu Pompeo Castelfranco alla fine del XIX secolo1. Da quel momento i tumuli sono stati oggetto di numerosissimi studi, al fine di determinare le usanze e i culti funebri legati a questa particolare facies archeologica.
Il rito dell’incinerazione
Si rileva come fosse prevalente l’incinerazione: il corpo del defunto, previamente adornato a festa, veniva posto su un pira e bruciato insieme ad essa. La cerimonia poteva avvenire in prossimità della tomba stessa oppure in aree sacre all’interno della necropoli, alla maniera delle ustrine romane. Le ossa venivano quindi ripulite delle ceneri e dei carboni; una volta raccolte erano collocate all’interno di urne biconiche, a situla o a olla, fase rituale definita ossilegio, chiuse da ciotole rovesciate.
Il corredo funebre
Il corredo funebre, che caratterizzava il defunto, era in parte inserito all’interno dell’urna. Si trattava di piccoli oggetti in bronzo non bruciati, in genere gioielli (anelli, pendenti, fibule…). Essi venivano sovente rotti o deformati per sancire il distacco del defunto dal mondo dei vivi, e per accompagnarlo idealmente nel passaggio verso l’oltretomba.
Un’altra parte del corredo funerario (armi, utensili, persino carri) era invece posta, contestualmente all’urna, all’interno della camera sepolcrale in ciste litiche. Tale oggettistica personale del defunto serviva a garantire la prosecuzione ultraterrena delle attività che aveva svolto in vita, permettendo il continuum dell’esistenza al di là della morte. Tra le numerose ceramiche rinvenute presso la Necropoli di Monsorino vi sono vasi, ciotole, coppe ed un caratteristico bicchiere, elemento distintivo delle sepolture golasecchiane.
Samuele Corrente Naso
Mappa dei luoghi
Note e bibliografia
- Pompeo Castelfranco, Paleontologia Lombarda. Escursioni e ricerche durante l’autunno del 1875, in Atti della Società Italiana di Scienze Naturali, XVIII, IV, 1876; Due periodi della prima età del ferro nella necropoli di Golasecca, in Bull. Paletn. Ital., II, 1876. ↩︎
P. Laviosa-Zambotti, Le origini della civiltà di Golasecca, in St. Etr., IX, 1935; id., Civiltà palafitticola lombarda e Civiltà di Golasecca, in Riv. Archeol. dell’Ant. Prov. e Diocesi di Como, XVII, 1939.