Spartaco, l’eroe e il gladiatore

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Il rumore secco, metallico, di catene che si spezzano. E subito un gran trambusto di grida e di guerrieri uniti in un solo spasimo di libertà. Si può solo immaginare quel fragore, allo spalancarsi dei cancelli del ludus gladiatorius dell’antica Capua, turbare con veemenza la quiete del luogo. Alla testa di alcuni improvvisati rivoltosi, considerati merce del lanista Lentulo Batiato, armati alla bell’e meglio di spiedi, mannaie e attrezzi da cucina, v’era Spartaco il trace1. Chi erano tali gladiatori, così folli da sfidare il potere di Roma?

Essere un gladiatore

Il termine munus indicava a Roma una sorta di dovere sociale, un dono, che le famiglie benestanti rivolgevano verso la società: erano munera anche i giochi rituali officiati per la celebrazione di un defunto. Si trattava di combattimenti mortali tra lottatori armati, ai quali assisteva la comunità. Forse la pratica aveva origini etrusche, costatazione che si esplica attraverso la figura archetipica del Phersu, un personaggio mascherato che appare sovente nelle pitture funebri raffiguranti giochi sportivi2. Alcuni autori moderni, tuttavia, sostengono piuttosto una provenienza campana3, giacché numerose scene di lotta sono raffigurate nelle pitture tombali di Paestum, e le prime scuole gladiatorie nacquero proprio in questi luoghi.

I munera a Roma

In ogni caso, soltanto in seguito i Romani adottarono la pratica dei munera. I combattimenti divennero sempre più complessi e articolati, contemplando differenti tipologie di lottatori, chiamati gladiatori. In epoca imperiale, tali pratiche acquisirono un carattere ludico di massa, divenendo spettacoli ingaggiati da personaggi pubblici o dall’imperatore stesso per intrattenere i cittadini romani. Fu così che i munera divennero parte integrante dei ludi, i giochi pubblici organizzati in occasione delle festività (ordinaria) oppure per eventi speciali (extraordinaria)4.

I ludi gladiatorii non erano l’unica forma di giochi pubblici diffusa a Roma. Le venationes, ad esempio, erano delle gare di caccia con animali esotici; i ludi circenses delle corse tra carri trainati da cavalli (quadrigae o bigae, a seconda che gli animali fossero quattro o due rispettivamente) e guidati dagli aurighi; infine, i ludi scaenici erano invece delle gare di recitazione.

” […] duas tantum res anxius optat panem et circenses”

“Il popolo desidera ansiosamente due sole cose: pane e giochi circensi”

Nulla meglio di questa famosa locuzione di Giovenale, contenuta nella Satira X (I secolo), è in grado di richiamare alla mente la funzione sociale che i ludi rivestivano nell’antica Roma.

Il ruolo sociale dei gladiatori

Ciò nondimeno, erano proprio i ludi gladiatorii ad essere i più acclamati dagli spettatori. I lottatori erano investiti di una vera e propria funzione sociale. Essi rappresentavano un formidabile strumento per il mantenimento dell’ordine costituito. Da una parte i munera venivano utilizzati dagli uomini più facoltosi di Roma per ottenere consenso politico, dall’altra essi incarnavano la sottomissione dei popoli barbari. Si trattava, infatti, sovente di schiavi provenienti da province remote e periferiche, catturati nel corso di rivolte o campagne militari. Nonostante, infatti, la funzione rivestita essi erano considerati alla stregua di una merce, proprietà di uomini senza scrupoli e dalla dubbia fama, i lanisti. I lanisti detenevano gli schiavi in scuole gladiatorie, vere e proprie caserme, come il ludus di Capua da cui partì la rivolta di Spartaco, e li noleggiavano all’occorrenza in cambio di un compenso.

Vivere a Roma come gladiatore significava essere considerato un infamis secondo la legge ma, allo stesso tempo, un eroe dal popolo se si era un valido combattente nell’arena. La loro giornata era scandita dalle dure e massacranti attività di preparazione fisica svolte all’interno del ludus.

Lo spettacolo dei gladiatori

I munera erano preceduti da un corteo cittadino a cui partecipava anche il magistrato o l’uomo politico che li aveva organizzati (editor). La processione ludica (pompa) era guidata dai littori, e il fascio littorio rappresentava il potere sulla vita e sulla morte. Il corteo era poi composto da suonatori di flauti e trombettieri che suonavano una fanfara. Seguivano i portatori delle armi gladiatorie: elmi, scudi e il gladius, da cui il nome dei lottatori. Lo spettacolo vero e proprio si apriva con una venationes. Solo dopo vi era la damnatio ad bestias, pratica durante la quale i condannati a morte venivano gettati in pasto alle belve. Nel pomeriggio prendevano avvio i combattimenti tra gladiatori.

Le figure gladiatorie

In età repubblicana, al tempo in cui Roma era in espansione, i lottatori venivano suddivisi in tipologie ben riconoscibili, in base all’etnia. Così i Sanniti erano contraddistinti dal possesso di uno scudo ricurvo, i Galli erano a torso nudo, mentre i Traci erano equipaggiati di un piccolo scudo e di una Sica, un caratteristico spadino.

In età imperiale, a partire da Augusto, Roma aveva ormai conquistato la gran parte delle province contro cui aveva combattuto. Per tale ragione, i gladiatori assumono dei ruoli codificati non più legati all’etnia di provenienza. Gli stessi combattimenti sono prestabiliti in base alla tipologia e all’armamento. Il lottatore Trace possiede ora un elmo con visiera sormontato da un grifo e degli schinieri; il provocator ha in capo un elmo tondo e senza appigli, giacché deve combattere contro il reziario, che altrimenti lo avvilupperebbe con la sua rete; il reziario, inoltre, combatte a torso nudo proteggendosi il collo con il galerus, uno spallaccio ben solido; il gladiatore più corazzato è, invece, il mirmillone, dotato di un grande scudo verticale, schiniere e un elmo piumato con cresta e visiera. Quando il mirmillone combatteva contro il reziario era detto secutor e possedeva un elmo con strette aperture oculari.

Lo spettacolo si concludeva con la morte di uno dei due combattenti oppure la sua resa. Al vincitore veniva consegnato un ramo di palma, mentre l’editor aveva la facoltà di decidere sulla vita e sulla morte dello sconfitto, “pollice verso”.

Verso pollice vulgus cum iubet

Giovenale, Satire

L’Anfiteatro Campano

In principio i munera si officiavano lungo le vie, talvolta presso il foro cittadino, o in strutture lignee provvisorie. A partire dal I secolo a.C. le città romane cominciarono a dotarsi di una struttura permanente di forma ellittica: nasceva così l’anfiteatro. Anche la scuola gladiatoria di Capua (oggi Santa Maria Capua Vetere) possedeva un proprio edificio per i ludi. La costruzione che oggi è possibile ammirare in loco, l’Anfiteatro Campano, risale alla fine del I secolo d.C.. Essa fu eretta in sostituzione della precedente arena (130-90 a.C.), posta nelle vicinanze e presso la quale dovette combattere anche Spartaco. L’Anfiteatro Campano fu il secondo più grande dopo il Colosseo, del quale con ogni probabilità ricalcò la struttura.

Il nuovo anfiteatro di Capua

L’edificio ellittico, con assi lunghi 165 metri e 135 metri, si innalzava su quattro ordini di spalti: ima, media e summa cavea, attico. Ogni livello della cavea era percorso da gallerie in opus latericium e raggiungibile attraverso apposite scale. Le gradinate erano interamente rivestite in marmo e persino gli accessi (vomitoria) erano decorati con bassorilievi raffiguranti scene di venationes e miti. Le monumentali arcate del portico in pietra calcarea che si aprivano all’esterno, oggi in parte ancora visibili, erano in numero di ottanta. Presso i quattro punti cardinali esse, più ampie, fungevano da ingresso per gli spettatori: la Porta Triumphalis accoglieva il corteo gladiatorio, mentre dalla Porta Libitina uscivano gli sconfitti.

L’anfiteatro era decorato con la presenza di semicolonne scolpite in ordine tuscanico e busti di divinità presso le chiavi d’arco. L’anfiteatro era percorso nei suoi sotterranei da un complesso sistema di carceres con canali, corridoi e nicchie che permettevano ardite e spettacolari rappresentazioni sceniche.

La rivolta di Spartaco

Non è chiaro se Spartaco fosse solo al comando della ribellione capuana; le fonti riferiscono di almeno altri due capi5 – i Galli Enomao e Crixo – che quel giorno del 73 a.C. condussero alla macchia settantotto fuggiaschi, forse esasperati dalle proibitive condizioni di vita a cui erano sottoposti.

Il manipolo di schiavi assaltò tosto un carro pieno d’armi gladiatorie, probabilmente diretto verso un altro ludus, e si preparò alla battaglia. Erano ben consci, quegli uomini, che sarebbero state inviate delle legioni per catturarli, né dovevano nutrire speranze più folli di qualche giorno di libertà. Ma la storia quasi mai ha percorsi lineari, prevedibili nella loro evoluzione. Roma fu cieca al pericolo rappresentato da Spartaco. Sottostimò la sovrumana bramosia di libertà che sopraggiunge in chi è schiavo, e soprattutto ignorava l’eccellenza guerriera dei fuggiaschi. Non soltanto essi erano ben addestrati ai combattimenti, chiamati munera, ma oltre alla bruta forza v’era un’insospettabile sagacia tattica. Appiano riferisce che Spartaco avesse militato come ausiliario nell’esercito romano, e ciò dà ragione del perché fu scelto come capo della rivolta.

Le prime schermaglie

Gli uomini di Spartaco sbaragliarono la guarnigione di Capua, inviata da Roma nella convinzione che la rivolta fosse solo un fenomeno di criminalità locale. E persino quando tremila legionari, al seguito del pretore Clodio Glabro, giunsero in Campania, le cose non andarono diversamente. Glabro era stato informato che i gladiatori si fossero rifugiati in cima a una rupe del Vesuvio, alla quale si poteva accedere attraverso un solo sentiero. I legionari si accamparono così alle pendici del vulcano, convinti di sconfiggere i ribelli riducendoli alla fame. Tuttavia, Spartaco e i gladiatori riuscirono a costruire delle scale con le piante rampicanti del luogo, e si calarono ai lati scoscesi della rupe. In poco tempo raggiunsero l’accampamento di Glabro e, presolo alle spalle, massacrarono tutti i tremila legionari romani.

La notizia dovette riecheggiare ben oltre le pendici vesuviane e l’improvvisata fuga di Spartaco si trasformò in una opportunità: briganti e fuggiaschi, provenienti da tutta la Campania, incominciarono a unirsi all’armata gladiatoria, impugnando le armi sottratte agli sventurati soldati di Glabro. E quando queste non furono più sufficienti, data la moltitudine che si andava aggregando, Publio Annio Floro riferisce di scudi realizzati in vimini e pelle; persino dalle catene degli schiavi venivano ricavate nuove armi6. Sicché, quando il secondo pretore inviato da Roma, Publio Varinio, giunse in Campania con un contingente superiore a quello di Glabro, si ritrovò a fronteggiare un esercito in piena regola, subendo anch’egli una disfatta rocambolesca.

Spartaco e la terza guerra servile

La rivolta di Spartaco e di pochi altri uomini aveva rotto ogni aspettativa di bellica resistenza. Anziché venire subito soffocata, essa si protrasse per ben due anni (73-71 a. C.), rinfocolandosi costantemente e coinvolgendo decine di migliaia di variegate genti lungo la penisola italica, infine divenendo nota come la terza guerra servile.

Plutarco attesta che il primo nucleo di ribelli, provenienti dalla scuola di Lentulo Batiato, fossero principalmente originari della Tracia e della Gallia7. Gli schiavi Traci giunsero a Capua tra la fine del II e il I secolo a.C., catturati probabilmente mentre compivano alcune scorrerie in Macedonia. I Galli, invece, si erano sollevati contro i Romani in concomitanza con la calata dei Cimbri e dei Teutoni nei territori settentrionali della Repubblica. Frontino8, Paolo Orosio9 e Plutarco10 citano, infatti, la presenza di Germani tra le fila gladiatorie, ch’erano stati catturati ancora bambini proprio in occasione della vittoria di Gaio Mario contro i suddetti popoli invasori.

Una moltitudine di genti

Questa variegata schiera di genti era, tuttavia, soltanto in apparenza disomogenea. I Celti avevano già combattuto al fianco sia dei Germani che dei Traci, soprattutto avevano condiviso la sorte con i Maedi, la tribù di Spartaco. V’era in sostanza molta più complicità di quanta se ne potesse sospettare a prima vista: i gladiatori condividevano un retroterra di consolidata collaborazione tra i loro popoli.

Circa il sopraggiungere di briganti e fuggiaschi, in seguito alla vittoria del Vesuvio, Plutarco preferisce annotare le diciture di pastori e mandriani11. Orosio fornisce, inoltre, un altro prezioso indizio per comprendere chi fossero questi uomini; egli riferisce che tali genti affluirono lungo la strada tra Metaponto e Consentia12. Si sarebbe trattato, in buona sostanza, di eremiti dei Bruzi, i quali erano stati ridotti a una condizione semiservile dai Romani dopo che avevano supportato il cartaginese Annibale nella seconda guerra punica. Orosio quantifica l’armata di Spartaco in quarantamila combattenti; Appiano addirittura in settantamila uomini13.

Le differenze di vedute tra Spartaco e Crixo

Con l’aumentare del numero di soldati, crebbero anche le difficoltà di gestione dell’esercito ribelle, e dovettero intercorrere alcuni dissidi tra Spartaco e gli altri capi. Appiano riporta che il trace, dopo la vittoria su Publio Varinio, si diresse verso le Alpi14. Spartaco era forse intenzionato a valicarle per far ritorno in Gallia e in Tracia, ma Crixo preferì continuare a saccheggiare i possedimenti romani nel Meridione. Ciò si spiegherebbe alla luce del fatto che molti Galli e Germani, soprattutto quelli catturati da bambini e vissuti sotto Roma, non avevano una propria idea di patria. Essi erano ormai italici a tutti gli effetti e non sentivano l’esigenza di ritornare nelle terre d’origine. Alcuni di loro volevano dedicarsi esclusivamente a una vita di brigantaggio; altri, come i Bruzi, erano davvero natii del Sud dell’Italia.

Durante tali saccheggi nel Meridione troverà la morte Enomao. Crixo, presi con sé Celti e Germani – diecimila effettivi per Orosio, trentamila per Appiano – in disaccordo con Spartaco si diresse in Apulia. La scelta si rivelò infelice poiché, giunto sul Gargano (72 a.C.), le forze del console Lucio Gellio Publicola attaccarono l’esercito e lo annientarono. Appiano ci informa che lo stesso Crixo fu ucciso e che, in seguito a tale evento, anche la restante parte dei ribelli, capeggiata da Spartaco, fu raggiunta dai Romani15.

Le fonti non concordano

Da questo momento le fonti non concordano: secondo Appiano, Spartaco sconfisse l’esercito di Gellio Publicola e anche quello di un altro console, Gneo Lentulo Clodiano16; per Plutarco combatté invece soltanto contro il primo, cercando di guadagnare terreno verso nord nel tentativo di valicare le Alpi e far tornare a casa i propri uomini17. In effetti, Floro corrobora i fatti e aggiunge il dettaglio, di non poco conto, di una battaglia combattuta nei pressi di Modena contro il governatore della Gallia Cisalpina, Cassio18.

A questo punto, però, successe qualcosa molto difficile da spiegare: Spartaco, pur vincendo la battaglia, e avendo la strada libera a nord, cambiò idea, e volse l’esercito nuovamente verso sud. Non sono chiare le motivazioni che spinsero il trace a questo improvviso ripensamento. Alcuni storici hanno ipotizzato che Spartaco si fosse convinto a marciare su Roma, o che fossero le sue stesse truppe a chiederlo. D’altronde l’esercito ribelle era stato sino a quel momento invincibile, e non aveva fatto altro che infliggere ai Romani sconfitte e umiliazioni senza pietà. Floro, ad esempio, racconta che Spartaco fece celebrare dei munera in onore del defunto Crixo e che impiegò come combattenti i soldati romani catturati in battaglia19.

Le mire dei ribelli di Spartaco

Si attesta così, in questa sorta di contrappasso storico che mieté trecento vittime, la convinzione che il destino potesse essere ribaltato. Perché allora non rovesciare anche Roma? Spartaco, a un certo punto al comando di centoventimila uomini20, dovette pensarci seriamente. D’altro canto sua moglie, descritta da Plutarco come una profetessa dedita al culto estatico di Dioniso, e che era stata fatta schiava con lui, gli aveva predetto che avrebbe fatto cose grandiose. Un’altra ipotesi è che Spartaco avesse deciso di costituire un potentato indipendente in Italia. D’altronde, c’era già un precedente del passato: quando lo schiavo siriano Euno aveva fomentato la prima guerra servile (135-132 a.C.), si era insediato in Sicilia e aveva istituito un regno con capitale Taormina, autoproclamandosi re con il nome di Antioco.

Fu questa forse la ragione che spinse Spartaco a ridiscendere la penisola italiana e dirigersi proprio verso la Sicilia21. Giunto nei pressi dello Stretto di Messina, l’esercito dei ribelli sarebbe dovuto sbarcare sulle sponde dell’Isola grazie all’aiuto dei pirati cilici, ai quali era stato pagato il traghettamento. Ciò nondimeno, i pirati non si presentarono affatto; Spartaco fu invece raggiunto dall’esercito di Crasso, inviato da Roma per sedare definitivamente la rivolta gladiatoria.

Orosio narra che ci fu nei giorni successivi una nuova secessione, sebbene non se ne conoscano le ragioni: i Galli e i Germani, capitanati da Casto e Gannico, abbandonarono Spartaco e ingaggiarono uno scontro diretto contro i Romani22. È Frontino a metterci al corrente della battaglia che nel 71 a.C. vide fronteggiarsi le forze ribelli di Casto e Gannico e quelle di Crasso a Cantenna23. I Galli e i Germani furono duramente sconfitti ma Plutarco scriverà che dei 12300 caduti solo due riportarono ferite alla schiena, a dimostrazione del coraggio dimostrato in battaglia.

La fine di Spartaco

Lo scontro definitivo tra le forze di Spartaco e i Romani si ebbe, tuttavia, secondo Orosio nei pressi del fiume Sele; secondo altri in Lucania. Plutarco descrive l’ultima battaglia in maniera epica, raccontando che Spartaco, prima dello scontro, uccise il suo cavallo innanzi ai soldati. Se, infatti, avesse vinto – affermò il gladiatore – avrebbe avuto tanti cavalli quanti ne desiderava, ma se invece avesse perso, non gliene sarebbe servito alcuno. Lo storico racconta che Spartaco si lanciò a piedi alla ricerca di Crasso, lungo tutto il campo della battaglia e, non trovandolo, fu infine abbattuto dall’esercito dei legionari; il suo corpo non verrà mai ritrovato24. Anche Appiano indugia in una descrizione epica e gloriosa: Spartaco, ferito a una coscia da una lancia, continuò a combattere e a sferrare fendenti, seppur in ginocchio, finché non fu travolto dall’avanzare delle legioni romane25.

Al termine della battaglia Crasso aveva catturato seimila uomini, che fece crocifiggere lungo l’intera via Cassia, da Capua sino a Roma, come monito a chi intendesse ribellarsi. In verità, una parte dell’esercito di Spartaco riuscì a scappare, ma tali fuggiaschi vennero rastrellati dal sopraggiungere di nuove legioni sotto il comando di Pompeo.

Le conseguenze della rivolta di Spartaco

La rivolta dei gladiatori, seppur finita in un modo assai tragico, ebbe un grande eco in tutta Roma. Essa, infatti, nella sua epicità riuscì a mettere in discussione l’ordine sociale precostituito. Da quel momento, molti si cominciarono a interrogare se le condizioni di vita dei gladiatori fossero giuste, e soprattutto se la privazione della libertà potesse causare nuove rivolte. La terza guerra servile si era sviluppata proprio sulla base delle oppressive costrizioni che Lentulo Batiato aveva imposto ai suoi gladiatori26. In tal senso Roma rivalutò la figura dello schiavo, ma non in relazione alla dignità dovuta alla persona, quanto al sistema sociale che aveva reso possibile la rivolta.

Il controllo del Senato

Così nel 65 a.C. il Senato romano, timoroso che Cesare potesse impiegare i gladiatori per ottenere consenso con la forza, egli aveva infatti organizzato un munus in onore del padre defunto venti anni prima, gli impose il limite di trecentoventi coppie di lottatori, provenienti dal suo ludus privato di Capua27. Tale limite fu esteso a tutti i cittadini, di fatto riducendo l’influenza dei lanisti nella vita sociale e politica. Augusto, inoltre, stabilì con una legge del 22 a.C. che fosse il Senato ad autorizzare i giochi e che l’organizzazione fosse affidata ai pretori; ridusse infine ulteriormente il limite massimo di gladiatori in un ludus a centoventi coppie.

L’auctoratus

Uno dei fattori che aveva amplificato la rivolta di Spartaco era l’appartenenza dei rivoltosi ad etnie estranee a Roma: i Galli e i Germani, ad esempio, erano rappresentati da numerosi gruppi di schiavi che si erano associati giacché condividevano tra loro lingua, usi e costumi. In età imperiale si cercò, pertanto, di incrementare il numero di gladiatori volontari, che più difficilmente avrebbero dato adito a rivolte. Si trattava di liberi cittadini che si sottoponevano alla condizione giuridica dell’auctoratus, godevano cioè di una libertà attenuata: in cambio di un compenso, divenivano proprietà di un lanista e arruolati in un ludus.

Samuele Corrente Naso e Daniela Campus

Note

  1. Plutarco, Vite parallele: Crasso e Pompeo. ↩︎
  2. R. Bloch, Les Étrusques, 1954. ↩︎
  3. K. Welch, The Roman Amphitheatre: From Its Origins to the Colosseum, Cambridge University Press, 2007; Futrell A, A Sourcebook on the Roman Games, Oxford, Blackwell Publishing, 2006. ↩︎
  4. S. Facchini, I luoghi dello sport nella Roma antica e moderna, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Libreria dello Stato, 1990. ↩︎
  5. Appiano, Guerra civile. ↩︎
  6. Publio Annio Floro, Epitome, II, 8. ↩︎
  7. Ibidem nota 1. ↩︎
  8. Frontino, Stratagemmi. ↩︎
  9. P. Orosio, Historiarum adversus paganos libri septem. ↩︎
  10. Ibidem nota 1. ↩︎
  11. Ibidem nota 1. ↩︎
  12. Ibidem nota 9. ↩︎
  13. Ibidem nota 5. ↩︎
  14. Ibidem nota 5. ↩︎
  15. Ibidem nota 5. ↩︎
  16. Ibidem nota 5. ↩︎
  17. Ibidem nota 1. ↩︎
  18. Ibidem nota 6. ↩︎
  19. Ibidem nota 6. ↩︎
  20. Ibidem nota 5. ↩︎
  21. Ibidem note 1 e 6. ↩︎
  22. Ibidem nota 9. ↩︎
  23. Ibidem nota 8. ↩︎
  24. Ibidem nota 1. ↩︎
  25. Ibidem nota 5. ↩︎
  26. Ibidem nota 1. ↩︎
  27. Plinio il Vecchio, Naturalis historia. ↩︎

Autore

Samuele

Samuele è il fondatore di Indagini e Misteri, blog di antropologia, storia e arte. È laureato in biologia forense e lavora per il Ministero della Cultura. Per diletto studia cose insolite e vetuste, come incerti simbolismi o enigmatici riti apotropaici. Insegue il mistero attraverso l’avventura ma quello, inspiegabilmente, è sempre un passo più in là.

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